Qualcosa è cambiato.
Non che siano arrivate notizie auspicate, né che siano subentrate forme magari anche prevedibili di rassegnazione, semplicemente i giorni stanno passando, sempre più lenti, oggi fanno cinquantanove giorni di clausura, nel mio caso rotta una volta alla settimana dalle tre ore che ormai impiego meccanicamente per fare la spesa, come in uno di quei video giochi scemi dei primi computer, ogni volta lo stesso percorso da ripetere facendo sempre le stesse mosse, guadagnando sui tempi, lavorando sui secondi, di lima, gli altri chiusi a doppia mandata, Chiara addirittura da sessantasei giorni, roba che neanche Formigoni agli arresti domiciliari, i giorni stanno passando, sempre più lenti, dilatati, anche se adesso sembra profilarsi una fine a questa clausura, i primi a chiudere, noi, gli ultimi a riaprire, noi, uno stillicidio di ore, e di conseguenza sta cambiando anche il modo in cui ci rapportiamo con essi, o almeno mi rapporto, non credo di poter estendere le mie sensazioni ai miei familiari, non ho prova che sia così per tutti e noi sette.
Anzi, se posso, devo dire che il modo in cui i miei familiari, i miei figli in modo particolare, stanno affrontando questa reclusione forzata, questa clausura, è davvero encomiabile. Sbroccano, certo, ma mai eccedendo, mai tutti insieme, non stanno lamentando sintomi di stress, non più di quanti non ne lamentino dopo che è capitato loro in passato di stare a casa per una qualche influenza, per tempi assai più ridotti, o se così non è sono bravi a dissimulare, ne pagheremo le conseguenze in un secondo momento.
Stanno in sostanza dimostrando una adattabilità, una capacità di adeguarsi a condizioni assolutamente non naturali davvero invidiabile. Certo, va detto, dalla loro hanno di non essere soli, i più piccoli, Francesco e Chiara, si fanno sicuramente compagnia a vicenda, seppur non abituatissimi a giocare tra loro, in genere, ognuno coi propri amici e i propri hobby, ora sono inseparabili, come il film di Jeremy Irons, che brutta immagine sono andato a pescare, sono inseparabili e basta, lo posso vedere dal tempo che passano insieme, anche solo da quello che passano a guardare le loro serie tv, abbracciati sul divano, dove giuro non li ho mai visti così. Gli altri, adolescenti, si calcolano poco, continuano a bisticciare per cazzate, come sempre, ma poi sono solidali, anche questo come sempre, quando io o Marina ci arrabbiamo per qualcosa con uno di loro, un po’ come hanno sempre fatto.
Essendo adolescenti, ma credo sia appunto una faccenda naturale, che nulla ha a che vedere con la quarantena, anzi, che sembra non aver affatto risentito della quarantena, passano un sacco di tempo chiusi nelle loro stanze, da soli, spesso in videochiamata con amici e fidanzato, Lucia, anche se credo che pure Tommaso abbia una qualche simpatia, visto che ogni volta che entro in studio, dove la sera è solito stare dopocena, la camera invasa da Francesco e Chiara, corre a mettere in stand-by la videochiamata, imbarazzato.
Fortuna per loro che esiste whatsapp, viene da dire, come fortuna nostra che esistono i social. Mia suocera, che per qualche momento ha vacillato, provando a buttare lì una sua idea di prossima fuga verso Ancona, ha reclinato le ali giù, e sembra lei sì rassegnata a dover passare ancora parecchio tempo da queste parti, ma nell’insieme, ripeto, non ci si può lamentare, anche perché la casa è grande e ci concede i nostri spazi, ognuno il suo.
Ciò nonostante mi accorgo che io sto cambiando il mio modo di vivere la clausura. Se prima, infatti, cambiavo umore ogni tot minuti, correndo da un’emozione all’altra, ora tendo a rimanere stabile, almeno per tutta la giornata. Mi alzo col culo girato?, ecco, resto col culo girato tutto il giorno, senza possibilità di calmarmi. Idem se mi alzo di buonumore, fatto che avviene non spessissimo, va detto.
Ci sono giorni, per dire, che cerco sempre la solitudine, passando buona parte del tempo in balcone, e anche lì, fortuna che di balconi ne abbiamo parecchi, anche piuttosto spaziosi, altri che neanche mi affaccio, se non per fare la mia solita foto notturna, ogni giorno la stessa, come già vi ho raccontato.
Sono più stabile, verrebbe da dire, anche se spesso sono stabile su stati d’animo negativi, la rabbia, il risentimento, la voglia di fare polemica.
Ben lo sanno quanti mi seguono sui social, perché è sui social che tendo a sfogarmi, per tutelare quelli che devono condividere la clausura con me. Lì sto dando il peggio di me, lo so, e me ne dispiace, specie per i miei che mi leggono e si preoccupano, come magari succede anche a quegli amici che poi non ho modo di sentire di frequente al telefono. Pensano io stia vivendo forse peggio di quanto non viva, che abbia anche una deriva anarcoide, sul fronte politico, che non vedevano da quando ero molto più giovane, non perché fosse sopita, ho sempre continuato a pensarla alla stessa maniera, solo che ho provato a mantenere un atteggiamento defilato, meno esposto, non fosse altro perché ho quattro figli, di cui due adolescenti, e una moglie stimata professionista, i cui colleghi mi seguono sui social e immagino leggano anche queste stesse pagine. Meglio comunque trattare male chi mi segue o mi legge sui social che i miei cari, sarete d’accordo con me, e se non siete d’accordo, amen, cazzi vostri, ne usciremo comunque tutti vivi, Coronavirus permettendo.
Diciamo che rispetto al solito sono più umorale, ma che rispetto i primi giorni di pandemia lo sono più stabile, nel senso che tendo a portare avanti un solo umore al giorno, comunque una anomalia, perché in tempi non pandemici sono piuttosto stabile, sicuramente non bizzoso, nonostante sia un cazzo di rockstar.
Quindi, sì, qualcosa è cambiato, e non saprei dire se è solo la prova che qualsiasi situazione, alla lunga, viene metabolizzata, altrimenti non si spiegherebbe, credo l’imparare a convivere con una amputazione, per fare un esempio, o riuscire a vivere in stato di reclusione, inteso come carcere, così come non si spiegherebbe l’elaborazione del lutto, sempre che elaborazione reale del lutto sia possibile.
Il fatto quindi che qualcosa sia cambiato non può certo non entrare in un discorso che, come tutti, da giorni sto ripetendomi come un mantra, più che un discorso una domanda che vado ripetendomi come un mantra: che ne sarà di noi dopo che tutto questo sarà finito? Domanda che quantomeno parte da una nota di ottimismo, la sicurezza che tutto questo prima o poi sarà finito, intendo finito davvero, non come ci stanno raccontando, alla buona, ma che di certo non nasconde quel senso di insicurezza che ormai sembra aver ammantato tutto quel che ci riguarda, dal lavoro alle prossime vacanze, tanto per non essere pragmatici, passando per le bollette o il mutuo da pagare e per arrivare all’apertura delle scuole, fatto che anche per settembre non sembra più essere così certo, almeno intendendo con apertura delle scuole l’apertura fisica degli edifici scolastici, non questa cagata della didattica a distanza cui stiamo mestamente dedicando una buona porzione delle nostre giornate da genitori.
Che ne sarà di noi dopo che tutto questo sarà finito davvero?
Domanda semplice, nell’esposizione. Domanda semplice che però prevede sicuramente una risposta articolata, essendo noi fatti di più ambiti, e soprattutto che prevede il nostro sapere, nello specifico il nostro non sapere, che tipo di mondo sarà lì a accoglierci quando finalmente potremo riprendere a frequentarlo, definitivamente, senza paure di una seconda ondata, e quando potremo riprendere a frequentarlo davvero, non solo attraverso la rete.
Domanda, quindi, alla quale non so e non posso e non voglio rispondere, perché azzardare risposte a caso non rientra tra i miei sport preferiti, e lasciarmi andare in previsioni fallaci minerebbe la mia autostima già malconcia in questi giorni di clausura.
Quello su cui sto quindi ragionando, sempre che si possa parlare di ragionare anche quando la lucidità non è più così presente, neanche lontanamente visibile all’orizzonte, è sul mio futuro professionale, anche qui, muovendomi a occhio, guardando le stelle, il muschio sugli alberi, un legnetto biforcuto puntato per terra, cercando, cioè, di orientarmi in assenza di chiari e sicuri punti di riferimento, provando a arrivare a una qualche meta. Perché se è vero come sembra che il sistema musica, come il mondo editoriale, cioè i due ambiti entro i quali da anni e anni mi muovo, saranno tra gli ultimi a ripartire, certo non prima di aver fatto la conta dei morti, e per altro vi consiglio caldamente l’ascolto di Carnivore, il nuovo album dei Body Count di Ice-T, perché quando tutto questo finirà, è ovvio, avremo bisogno dell’idonea colonna sonora per sollevare le mazze sin sopra la testa prima di calarla sui chi si meriterà le nostre mazzate, siano i banchieri, quelli che hanno speculato sulla nostra clausura, i politici, fate voi, certo non prima di aver quindi fatto la conta dei morti, che saranno tantissimi, non certo fisicamente ma metaforicamente, perché è evidente anche ai meno attenti come questa pandemia sia arrivata a spazzare un castello di carte già pericolante, lasciando solo ai più forti, immagino, l’opportunità poi di rialzarsi, lo streaming riconosciuto da tutti per quello che è, una merda che consente introiti alle major solo tramite gli abbonamento Premium, abbonamenti Premium che in questo periodo sono crollati, ovviamente, perché a casa si capisce ancora meglio come lo streaming sia una merda, mica è uguale ascoltare musica da fermi o farlo mentre si è in giro sui mezzi pubblici, o in auto, o a spasso, tanto vale usare Youtube, che infatti ha per contro avuto un boom, e i live bloccati al loro essere costanti partite di giro, i BIG della musica lì a piagnucolare per conto delle maestranze, maestranze che si sono sempre guardate bene dal pagare di propria tasca o sostenere in questo difficile momento, meglio chiedere a altri, maestranze alle quali i promoter col cazzo che hanno girato i tanti, tantissimi soldi tirati su dalle prevendite, vere e proprie piccole estorsioni praticate ai danni del pubblico, pubblico che per altro ancora una volta è l’unico a prendersela in culo, col cavolo che restituiscono i soldi dei biglietti in questo continuo spostare in avanti le ipotetiche date di concerti che, con buona pace, potrebbero non avere più neanche luogo, per come li conoscevamo, sempre che non si prosegua in questa pantomima del far finta che in fondo non sia successo nulla, di colpo niente più conferenze stampa di Borrelli con i dati giornalieri, niente più titoli allarmistici, si torna a parlare di politica e di altre amenità, la Fase 2 a portata di tiro, siamo già nella Fase 2, addirittura, ognuno fa il cazzo che vuole, apro, non apro, sì apro, tutti a guardare alla ripartenza, solo poco più di una influenza, anche meno di un’influenza, ne ammazza più la prostata, che sarà mai ‘sto Coronavirus?, la Regione Lombardia che mi manda sms su numeri che io non ho autorizzato a dare a Regione Lombardia in cui mi si dice di scaricare una app, senza ovviamente mettere un link, genii, Immuni il nome, app che però non violerà la mia privacy, perché non fidarsi di chi ti ha mandato un sms su un numero che non dovrebbe avere?, il Comune di Milano, sì perché Beppe Sala di colpo è tornato fuori, chissà se coi calzetti arcobaleno o vicino agli stradini di via Beato Angelico, io non dimentico, e è anche tornato amico di Fontana, ripartiremo insieme, Beppe Sala che manda sms, sempre su numeri che nessuno ha autorizzato a dare al Comune di Milano in cui dicono a aziende di riaprire prima della fine del lockdown, senza nuovi decreti, come diceva Guzzanti ai tempi d’oro, la casa delle libertà, ognuno fa come cazzo gli pare, Conte è sparito, Mattarella non c’è proprio mai stato, mai capito chi si esalta per un capo di stato che ha nel tacere il suo punto di forza, Colao il carabiniere farà chiaramente le scarpe a Conte, e gliele farà per mano di Renzi, per altro per aver scazzato col PD, pensa te, Renzi, uno che quantomeno politica l’ha sempre fatta, Conte non parla più ogni due giorni come prima, sta sempre al telefono con Phil Manzanera e Brian Eno, vuole riformare la band, questo lo scenario, prima dovevamo morire tutti, se uscivi eri un criminale, poi non è morto nessuno, numeri in fondo gestibili, dobbiamo uscire adesso, subito, tranne le scuole, quelle non apriranno manco a settembre, poco importa che l’Istat ha specificato come una famiglia su tre non abbia device, poco importa che se riapri tutto e lasci i figli a casa col cazzo che puoi riaprire tutto, tutto chiuso, tranne i concerti, e i bar coi corridoi di plastica, i concerti, di quelli chi cazzo se ne frega, e in effetti chi cazzo se ne frega, gli altri paesi sono ripartiti, il modello Wuhan non ha funzionato, immunità di gregge, addio scienziati sempre tra le palle, popstar del cazzo, i pochi che si vedono parlano di seconda ondata prima dell’estate se finisce il lockdown, ma che saranno mai gli scienziati quando al ministero della salute abbiamo Speranza, questo lo scenario, questa l’apocalisse, l’apocalisse dentro la quale mi trovo a vivere, a ragionare, ecco, quello su cui sto quindi ragionando, sempre che si possa parlare di ragionare anche quando la lucidità non è più così presente, neanche lontanamente visibile all’orizzonte, è sul mio futuro professionale, perché, lo confesso, se è vero come è vero che questo nostro vivere così tanto a lungo in casa ci ha cambiato, facendoci diventare naturale lo stare in casa, reclusi, immobilizzati, ne parlavo proprio prima con Marina, quando tutto questo sarà finito ci mancherà lo stare fianco a fianco sempre, e non lo dicevamo sempre per sdrammatizzare, o per fini scaramantici, è vero che ci mancherà, perché a vederla brutta tutti sappiamo cosa sia la Sindrome di Stoccolma, tutti sappiamo come certi animali liberati dalle gabbie rimangano sempre intorno alle gabbie, a girare in tondo fuori come prima giravano in tondo dentro, ricordo perfettamente quando da piccolo ho visto una quaglia girare intorno a una di quelle gabbie alte e bombate, come una cappelliera, incapace di volare via e anche di fare anche un solo verso, le quaglie sono appunto mute, ma più che altro nello specifico ci mancherà perché non siamo nessuno dei due convinti che passare buona parte della settimana a lavorare sia qualcosa che ci meritiamo, non nel senso che non ci meritiamo di lavorare, siamo capaci, abbiamo studiato e studiamo per farlo, siamo molto capaci, ma meritiamo in senso di pena a noi inflitta, perché sarebbe bello poter vivere più tempo di quello che viviamo, perché in fondo che lavorare renda liberi e nobiliti l’uomo non è qualcosa cui credere a cuor leggero, sappiamo come è andata a finire, è infatti vero che il Coronavirus e il conseguente isolamento ci hanno messi tutti di fronte a quello che in una vita precedente ci sembrava la norma ma che oggi ci appare il superfluo, l’inutile, il rinunciabile, ponendoci quindi di fronte a una sorta di resa dei conti personali di ciascuno di noi con se stesso.
Su questo mi interrogo, di tempo non ne ho molto, ve lo sto raccontando, ma ne ho abbastanza per star su a pensarci, e questo pensare mi sta portando, ci giro intorno sempre più spesso, a maturare l’idea di lasciare questo mio parlare di musica per sempre, di lasciare le scene, di sciogliermi come si scioglie una band quando cantante e chitarrista scazzano tra loro.
Lo so, è una di quelle cose che si dicono nei momenti drammatici, poi tutto passa e, per dirla alla Guccini, torniamo gli stronzi di prima, ma ci sto pensando.
Ha senso, mi chiedo, passare tutto questo tempo a parlare di canzoni e soprattutto a provare a smontare un sistema, quello dello show business, che ovviamente di lasciarsi smontare neanche ci pensa, e che soprattutto mi vede, per questo mio star lì a rompere le palle, come si guarda appunto a chi rompe le palle, uno che se non ci fosse sarebbe meglio, ma c’è, ce lo dobbiamo tenere?
Intendiamoci, la musica è la mia principale passione. Certo, c’è la letteratura, ma è il raccontare la musica quello che ho scelto di fare dedicandoci più tempo, e credo di esserci anche riuscito piuttosto bene, negli anni, è la musica che ho usato come location per la mia narrativa. Solo che raccontare la musica stando dentro il sistema, questo in fondo faccio io, seppur ricoprendo un ruolo di outsider, fatto che non implica che io sia solo uno che ricopre un ruolo, intendiamoci, per ricoprirlo si fanno grandi rinunce, specie economiche, e si sceglie di stare sul cazzo a un sacco di gente, certo, avendo per contro dalla propria un sacco di altra gente, artisti in primis, ma non è l’interpretazione di un ruolo, il mio essere un outsider, piuttosto l’incarnazione di una figura credo necessaria, la transustanziazione, quello che anche ridendo e scherzando, i giullari di corte dicevano che il re è nudo, ci pensi quel coglione di collega che tempo fa mi ha chiamato giullare pensando di offendermi, meglio giullare che meretrice di corte, in quel caso si prendono cazzi e basta, lui ben lo sa, dice appunto che il re è nudo, verità necessaria da dire, credo, solo che raccontare la musica stando dentro il sistema a me, ora come ora, non sembra la mia cosa. Confesso, sarà la stanchezza da reclusione, sarà lo stress da insicurezza del domani, star qui a scrivere di canzoni, di discografici, di promoter, di quella roba lì, a volte, spesso in questi giorni, sembra dedicare ore preziose, la mia vita, a quella categoria di cose che appartengono a quella categoria del superfluo di cui parlavo prima.
Magari ve ne parlo i prossimi giorni, ma io ho iniziato a scrivere di musica cosciente di farlo da scrittore, credo che non vi sia sfuggita questa mia attitudine, come qualcosa che avrebbe, in sostanza, accompagnato il mio essere scrittore, che ne sarebbe stato controparte, o almeno pariteticamente affine. Invece, lo so, lo so benissimo, oggi sono il critico musicale strano, punto e basta. Quello verboso, sicuramente, logorroico, quello stronzo, quello anche colto, magari, ma in maniera magari arrogante, quello che scrive e pubblica i libri, certo, ma comunque il critico musicale, e sono il critico musicale per il mondo dell’editoria, dove magari sono più il biografo delle rockstar che il critico musicale, a dirla tutta, e sono quello strano e stronzo per il mondo della musica, fuoriluogo ovunque.
Non va bene.
Non va bene per me, ovvio.
Questo mi sto dicendo in questi giorni. E me ne sto sempre più convincendo.
Me lo sto dicendo perché, complice anche il fatto che, Honolulu e qualche altra minchiata esclusa, ho visto da qualche parte che Paradiso non contento di aver scritto con Elisa Andrà Tutto Bene ha tirato fuori una delle sue cagatelle, figurati se me la sono andato a sentire, non sta praticamente più uscendo quella musica demmerda che per anni ho stigmatizzato con la puntualità di Claudio Gentile che strappa la maglia all’attaccante che deve marcare, i calci sugli stinchi dati durante i calci d’angolo, i colpi di gomito tra le costole, in questi giorni di clausura sto andando a ripescare, con la costanza di Ryan Giggs che corre lungo la fascia per tutta la partita, dal primo all’ultimo minuto, tutta quella musica che adoro e che ho potuto ascoltare così poco negli ultimi anni per colpa appunto del dovermi occupare della musica demmerda, per dire, proprio adesso sto riascoltando Loveless dei My Bloody Valentine, convincendomi ancora una volta di quanto Kevin Shields sia un fottuto genio, giustamente restio a regalarci sprazzi di felicità, razza umana di merda.
Non solo per questo, ovviamente.
Anche perché, questo diario potrebbe pesare un po’ in questi miei ragionamenti, in fondo sono anni che sto fingendo di occuparmi di musica, con il solo scopo di scrivere, perché scrivere è la mia forma d’arte, quella che ho coltivato con dedizione, partendo da un talento, fottetevi, certo, ma anche e soprattutto perché è con la scrittura che riesco a guardare il mondo, attraverso la scrittura, e pormi al centro delle mie pagine, come ho sempre fatto, si sarà notato, è il mio modo per decifrare il mondo, il mio corpo e la mia faccia lì a fare da mirino col quale puntare la figura in movimento.
Per dire, ma ripeto, ve ne parlerò meglio un’altra volta, quando anni fa, credo fosse il 2015, forse il 2016, è uscito il libro di Rick Moody Hotel del Nord America ho sussultato. Per più di un motivo.
Primo perché Rick Moody è uno dei più grandi scrittori della mia generazione, di più, uno dei più grandi scrittori contemporanei, provate a leggere Il Velo Nero e a non straziarvi, se ce la fate, o provate a leggere le prime dieci pagine di Rosso Americano e, se siete scrittori, non sentirvi dei completi incapaci, degli inconcludenti, l’autostima che scappa via, fatta a pezzetti da un talento immenso e inarrivabile.
Secondo, perché l’idea alla base di quel libro, un romanzo che si sviluppa attraverso una serie di recensioni di hotel, ma un romanzo tout court, una trama ben delineata, i personaggi vivi, tangibili, era esattamente una delle mie idee messe lì sul PC, dentro apposito folder. Lo era da anni, lo è ancora oggi, perché io parlo di musica, e uso me, il me stesso personaggio, non il vero me stesso, sono una persona reale ma anche un personaggio letterario, mi leggete, dovreste saperlo, non mi avrete fatto parlare di Mark Leyner, di Hunter S. Thompson e Tom Wolfe, di John Barth, di tutti quei libri e quelle idee di letteratura invano, vero?, uso il me stesso che parla di musica per scrivere d’altro, di vita, di società, del mondo, esattamente come il protagonista del libro di Rick Moody.
Per anni ho scritto articoli pensando di farne un libro, e in effetti li ho anche fatti, quei libri, penso al Manuale di sopravvivenza alla musica demmerda, al seguente Contro la musica, ma altro avevo in mente, quelli erano appunto raccolte di articoli, sempre che i miei siano articoli, sicuramente rielaborati per diventare capitoli di libro, ma scritti anche con l’idea di parlare di musica, non pensati organicamente, o se anche pensati organicamente non organicamente ordinati, lì la musica occupava una porzione importante, preponderante, che aveva superato addirittura la mia volontà, efficace mio malgrado, nell’ultimo anno ho affinato la cosa, passando a parlare sempre più spesso di me, di quel me stesso lì, letterario, il mirino di cui sopra, complice il mio compiere cinquant’anni, la scusa del guardarmi alle spalle, al mio passato da giovane rockettaro, gli anni Novanta, l’idea proprio quella di farne un libro, prima o poi, c’è un folder nel mio PC che si intitola Libro per Premio Strega, perché è chiaro che se mai decidessi di compiere questo passo è allo Strega che dovrei puntare, io a fare la rockstar, magari accompagnato dalle rockstar vere, quelli che frequento nelle rare occasioni mondane che mi concedo, quelle che, in quanto scrittore che scrive di musica, artista tra gli artisti, tratto da pari a pari, quelli che mi trattano da pari a pari, pensateci, io e i cantanti seduti al tavolo lì in Villa Giulia, Vespa a presentare, editori e scrittori seduti agli altri tavoli, editori che mi coccolano, spesso, perché i miei libri vendono parecchio, circa un milione e duecentomila copie vendute fin qui, ma non mi considerano certo uno scrittore scrittore, i colleghi scrittori, figurati, che neanche sanno che ho venduto molti più libri di loro, Ferrari, quest’anno finalista allo Strega che ha relegato i miei titoli tra i libroidi, lui che coi libroidi ci ha campato, io di pelle vestito, lo smalto nero sulle unghie, dita ricoperte di anelli di argento, i capelli lunghi lasciati liberi, gli occhialoni rosa che esibisco sulle mie immagini ufficiali, lì, scrittore tra gli scrittori, rockstar tra le rockstar, un folder che contiene non tutti i pezzi, non fatemeli chiamare articoli, non lo sono, ma solo quelli che ho scritto pensando a quel libro, tanti, tantissimi, esiste anche un file, dentro quel folder, che li racchiude tutti, e è un file di oltre un milione e mezzo di battute, di caratteri, oltre duecentocinquantamila parole, il mio Hotel del Nord America, ma decisamente più importante di quel libro, stando almeno nel boschetto della mia carriera e della mia bibliografia, magari non solo guardando a quel boschetto lì.
Ecco, in questi strani giorni, giorni randagi, giorni anomali, penso che quel libro lo dovrei prima o poi finire di scrivere, pensandolo proprio come libro, come penso che in fondo anche questo diario che sto scrivendo sia un libro, pensato come libro, pubblicato come capitoli di un libro, un libro che prima o poi diventerà appunto un libro.
Magari sono solo i deliri di chi è sotto pressione, sotto stress, in balia dei propri pensieri, ma ci sto pensando sempre più spesso, al punto da dichiararlo qui.
Del resto, come potrei mai tornare a scrivere del nuovo singolo di Fedez, dal momento che proprio in questo momento dal mio stereo sta uscendo quel capolavoro assoluto di Psychocandy dei Jesus and Mary Chain, pronto a essere sostituito, è una vocina dentro la testa che me lo impone, da Psalm 69 dei Ministry?
Quando la mia band, una delle mie band, a dire il vero, perché ho militato come tutti quelli che hanno suonato da giovani, specie tra quanti suonavano negli anni ottanta e novanta in tante band, ma è evidente che la mia band siano stati loro, gli Epicentro, quando la mia band si sciolse, nell’estate del 1994, io e Roberto, il bassista, mio amico sin da quando sono andato a vivere sopra casa sua, io tre anni, lui due, abbiamo per un po’ cullato l’idea di formare qualcosa che suonasse un po’ come i Ministry, sprovvisti come ci eravamo trovati di batterista e cantante, qualcosa di rumoroso, certo, industriale, del resto provavamo sopra la fabbrica di sparachiodi di suo zio Remo, dalle parte dei porto di Ancona.
Io avrei suonato la chitarra e cantato, lui il basso e qualche fusto industriale usato a mo di batteria, avremmo fatto musica, avremmo fatto casino, rumore bianco, rumore e basta.
Mi sentivo molto vicino a Al Jourgensen, all’epoca, lui con i dread, io con capelli lunghi fin sopra il culo, stesso nichilismo nello sguardo, stessa rabbia espressa chiaramente.
Ci abbiamo pensato, ne abbiamo anche parlato, a lungo, poi non ne abbiamo fatto nulla, peccato, chissà cosa ne sarebbe venuto fuori.
Ecco, credo che davvero non sia più tempo di lasciare che le idee ci scorrano sotto il naso senza che si provi a dar loro vita. Poi magari cambierò idea, farò una reunion con me stesso, ma al momento sto davvero pensando di sciogliermi.