Gigaton dei Pearl Jam è il manifesto di una band eterogenea a tutto (recensione)

Pochi i punti di forza, tante le cose interessanti. Eccezionale Matt Cameron, che ha dato il suo apporto heavy al disco

Photo by Danny Clinch / Twitter


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Eccolo, Gigaton dei Pearl Jam. Rocce che in copertina minacciano di schiantarsi sul nostro grugno ma che in realtà ci proteggono dal disordine che impera dietro di esse. Stiamo correndo troppo veloce e quelle rocce decretano uno stop. Lo fanno, i compagni di banda di Eddie Vedder, con un album fatto di cerchi concentrici. Al centro c’è lui, il frontman, e per questo non mancano gli episodi in cui il disco diventa eccessivamente Eddie-centrico, ma ci arriviamo.

Annunciato e anticipato in modo bizzarro da iniziative originali (vedasi la hotline messa a disposizione dell’utenza statunitense presso la quale era possibile ascoltare 30 secondi di ogni traccia, vedasi quel giochetto con l’app ufficiale della band) Gigaton dei Pearl Jam arriva in quel momento in cui tutti siamo costretti in casa e gli artisti rinviano le date.

Non rinviano le uscite dei dischi, e per questo dobbiamo ringraziare le evoluzioni della tecnologia: se esce l’album non ci metteremo a rischio andando nel nostro store preferito per acquistarlo. Abbiamo i servizi di streaming e comodamente in pigiama possiamo sgranocchiare la novità.

A questo giro, però, è la novità a sgranocchiare noi. Ieri abbiamo contemplato il regalo dei Nine Inch Nails e proprio ieri usciva Gigaton dei Pearl Jam. Ci ha trovato hypati e curiosi, decisamente prevenuti considerando le anticipazioni di Dance Of The Clairvoyants e Superblood Wolfmoon. Il 25 marzo è stato il turno di Quick Escape e in queste tre previews abbiamo scoperto la sostanza con la quale è stato concepito il disco.

Gigaton non è certo Ten, non è certo Vitalogy e non è di certo un argomento sul quale spendere le consuete parole di comparison con i lavori precedenti, perché da un po’ di tempo Eddie Vedder e soci ci hanno messo in testa che a loro piace fare ciò che a loro piace.

Per questo è bene non cercare un continuum tra i Pearl Jam di oggi e quelli dell’Eddie tamarro con le bermuda e i capelloni sudati. Per partire con un degno viaggio all’interno della novità della band di Seattle sintetizziamo con alcune prime battute: Matt Cameron è un batterista della Madonna (o di tutte le Madonne), il produttore Josh Evans ha preso il posto dello storico produttore Brendan O’Brien e anche lui ha fatto un gran bel lavoro.

Gigaton dei Pearl Jam è un disco che ti avvolge, ed è vero: i suoni sono completi, le frequenze ti bombardano senza farti crollare e i volumi ti si schiantano addosso facendoti del bene. Come accade in ogni album della squadra di Eddie Vedder il disco contiene la parte melodica, quella più rabbiosa, la ballata struggente e l’episodio allucinato, e tutto si combina in un puzzle ordinato nelle intenzioni ma fiacco su diversi aspetti.

Perché tutto questo? Lo ha riferito Josh Evans in un’intervista concessa a Rockol: “Ognuno di loro ha gusti molto eclettici e li porta in studio. Ma questa volta erano anche decisi a non darsi dei limiti”. Ecco, infatti, che nel disco respiriamo il nucleo dei Pearl Jam circondato da The Who, Queen, Talking Heads, tanto garage rock e poco grunge, tanto rock alternativo e tanto calore, elemento che forse cozza terribilmente con lo spirito di Seattle, ma questo a loro non importa.

Dance Of The Clairvoyants, Superblood Wolfmoon e Quick Escape, dicevamo, sono i tre singoli che hanno definito in anteprima l’intero mondo di Gigaton dei Pearl Jam.

Dance Of The Clairvoyants subisce il fascino della nostalgia degli anni ’80: il noise gate sulla batteria è evidente, e questo rende le pelli di Matt Cameron un’imitazione del timbro delle percussioni elettroniche. Tutto viaggia tra synth e in sincrono con le chitarre di McReady e Gossard, che intervengono quando la voce di Vedder graffia un pochino di più. C’è tanto groove, in Dance Of The Clairvoyants, e questo rende il pezzo uno degli episodi migliori del disco.

Superblood Wolfmoon inizia con un deciso Matt Cameron, e per un attimo siamo lì lì per cantare: “You really like my limousine, you like the way the wheels roll” ricordando quando i Nirvana rendevano omaggio ai Kiss con la cover sguaiata di Do You Love Me che troviamo nel bootleg Outcesticide.

Il brano, infatti, ha tanto rock’n’roll e tanto garage rock, e difatti Gigaton dei Pearl Jam è un disco che guarda al futuro con un braccio teso verso il passato.

Quick Escape ci fa pensare che mentre la band scriveva il disco avesse nelle cuffie tanto trip hop ma anche tanto alternative metal: la linea di basso di Jeff Ament e la batteria serpeggiano tra Army Of Me di Bjork e Thinking Of You degli A Perfect Circle. Probabilmente sono poco azzeccate le soluzioni metriche di Eddie Vedder: il frontman sceglie di rimare e ritmare con vigore rasentando un ingenuo rap cantato. Lo perdoniamo, visto che lo special arriva da altri mondi.

Tre episodi in anteprima, dunque: quello pieno di groove, quello pieno di rock’n’roll e quello sensuale e ponderato.

Il resto funziona pressappoco così: si apre con la bomba Who Ever Said che è rock targato Pearl Jam che però non vogliono targhe. Chitarre e beat ci danno dentro, Eddie Vedder non sbaglia alcuna modulazione e tutti pestano con rabbia e anche un po’ di spavalderia.

Troviamo pace con Alright, quando Eddie si decide a viaggiare su note più basse (amico, ti diciamo “bravo” anche se non strilli) e l’arrangiamento è tanto atmosferico quanto intenso e confortevole, anche se per evitare di scadere nel tedio sarebbero bastati appena 3 minuti.

Si parla di intensità anche quando pensiamo a Seven O’Clock, che rianima il sopore stimolato da Alright e non eccede, grazie alla scelta di suoni onirici e al riff con cui Matt Cameron rende interessante tutto il brano. Ci riprenderemo con Never Destination, piena di serotonina che addirittura riesce a infastidire, ma anche con Take The Long Way in cui sempre la bestia Cameron ci offre amplessi ritmici in 7/4 lungo la strofa.

Gigaton
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Le 4 tracce finali sono una parabola discendente verso l’Eddie-centrismo. Buckle Up è quell’inganno impegnato – e l’impegno c’è – che tuttavia non lascia il segno, troppo contaminata dal folk che a questo giro somiglia tanto a un pretesto per apparire profondi ma risultare stanchi.

Non sapremo mai se la colpa sia del compositore, quel Steve Gossard che per tutta Buckle Up sceglie arpeggi finto-audaci, o della risultante che è la canzone in sé. Va detto, tuttavia, che se non fosse per i singhiozzi bassistici di Jeff Ament la canzone finirebbe nel dimenticatoio.

Comes Then Goes permette a Eddie Vedder di giocare a fare il bluesman. Un po’ Dylan, un po’ Leadbelly (sì, lui), un po’ troppo Eddie Vedder, il brano si struttura nel canone della ballata acustica con presunzioni di suggestione, a parte i bicordi fuori scala che lampeggiano durante la strofa tra un periodo e l’altro. Del resto l’unplugged sembra il mondo più adatto a Eddie, che con la sua voce sa dare il meglio di sé quando non strilla.

Retrograde funziona sul finale dopo averci saziati con la faccia più pop del rock alternativo: troviamo suoni ed effetti spaziali, delay dalla coda infinita e riverberi dominanti, oltre ad interessanti suoni in reverse. Sì, Retrograde funziona sul finale, non prima. Non ci resta che River Cross, un canto quasi messianico che chiude il disco con solenne dignità, ma è una dignità che si interfaccia con il calibro del disco.

Questo, in sostanza, è Gigaton dei Pearl Jam. Troviamo una band composta sempre di più da bravi ragazzi con la faccia pulita, lontani dagli stereotipi del rocker maledetto e depresso e più vicini a una ricerca di positività e sentimento.

Dominano le chitarre, che in tutto il disco sono presenti con un timbro chiaro, deciso e tagliente, e la scelta non è casuale. Josh Evans è un chitarrista e lo dice chiaramente:

“Non credo fosse una delle cose che esplicitamente la band cercava, ma è una mia fissazione: sono un chitarrista, passo un po’ più di tempo di tempo su questo aspetto. Ho passato molto tempo con loro, ho visto centinaia di loro concerti, so come suonano e sia consciamente che inconsciamente ho cercato di catturare quell’energia”.

Domina, ovviamente, la voce di Eddie Vedder che solo la batteria (eccellente, lo abbiamo già detto?) di Matt Cameron riesce a tenere al guinzaglio. Il caro Eddie ha fatto scuola e a lui dobbiamo tantissimi cantanti nati dalla lezione dei Pearl Jam, e probabilmente Vedder è stato il primo a curare meglio il canto nella scena grunge di Seattle.

Bisogna anche dire che parlare dei Pearl Jam nel contesto della scena grunge di Seattle è fin troppo azzardato, perché sono, sono stati e saranno sempre qualcosa di eterogeneo ad ogni convenzione. Anche con questo disco, infatti, dividono il pubblico tra appassionati indignati, scopritori dell’ultima ora e detrattori incalliti.

Da tanti anni si parla di morte della band, ma Gigaton dei Pearl Jam si colloca proprio laddove non deve stare, perché Eddie e soci non hanno bisogno di spiegarsi. Vogliono suonare, sanno suonare ma molto spesso le due cose viaggiano nell’indipendenza reciproca. A loro non interessa: Gigaton dei Pearl Jam ce lo dobbiamo tenere come qualsiasi disco che si aggiunge a quelli pubblicati in precedenza. Non lascia il segno, ma sono i Pearl Jam e a volte abbiamo paura di dissentire contro chi arriva da Seattle e dai nostri amati anni ’90.