Chiunque abbia visto MacGyver già lo sa. Parlo del MacGyver vero, non quella cagata che gira adesso su Sky. Quello interpretato da Richard Dean Anderson, diffidate delle imitazioni. Ecco, chiunque abbia visto MacGyver già lo sa, anche un materiale apparentemente malleabile, morbido, fragile, se ben manipolato, può diventare compatto, duro, solido come il titanio, capace di resistere alla pressione, di incidere la roccia. Non volevo star qui a fare il colto, citando il Conte di Montecristo e il suo tunnel, che non è più epoca di intellettualoni, di qui la scelta pop di citare MacGyver, immagino abbiate apprezzato.
No, fermi, riparto. Sto provando a fare il simpatico per sdrammatizzare. Per stemperare la tragicità di quel che voglio raccontare, colorando di cinismo qualcosa che con cinismo non c’entra. O meglio, che ne attesa l’avvenuto decesso.
Il fatto è che nella mia idea iniziale, quella per cui ho citato MacGyver, ben sapendo che dopo poco avrei infilato la citazione di Dumas, tanto per farvi capire che sì, sono pop, ma ho anche studiato i classici, e sto di nuovo finendo lì, fuoritema, cazzo, il fatto è che nella mia idea iniziale, scusate le troppe divagazioni, quella per cui ho citato MacGyver, per intendersi, c’era il mio spiattellarvi come, in un tempo passato, io fossi fragile, morbido, malleabile. E nel dirvi quello, sottinteso, il fatto che io oggi non lo sia più, solido come il titanio. Nel mezzo, tra quel passato e l’oggi, il mio essere stato manipolato, da intendersi non come raggirato, ma proprio plasmato con le mani, dalla vita. Di come, cioè, la vita abbia provato a piegarmi, finendo, nei fatti, per rendermi capace di incidere la roccia.
Non ci riesco. Non sto riuscendo a spiegarvi in modo razionale quello che vorrei raccontarvi. Siamo a tre settimane di convivenza in casa, di isolamento, immagino possiate comprendermi anche se vivete in zone in cui l’emergenza è arrivata da meno tempo, magari solo questa settimana. Ma non è la vostra comprensione, la vostra solidarietà, neanche la vostra compassione quella che sto cercando di raccontarvi.
Ricomincio, e giuro che è l’ultima volta.
Ho un passato di attacchi di panico. Credo che nel dirlo, anzi, so per certo che nel dirlo stupirò chi mi è stato vicino in quegli anni, tipo i miei genitori, i miei fratelli, coi quali non ho mai affrontato direttamente la cosa, ma così è, prendiamone atto. Oh, magari lo sanno perfettamente, ma un’educazione borghese e un senso del pudore piuttosto elevato, unito a una totale mancanza di fiducia nella psicologia, li ha spinti a non prendere la cosa di petto, suppongo, tipo chi preferisce lasciare il coperchio sul vaso di Pandora. Sia come sia, per buona parte della mia adolescenza, sicuramente per gli anni in cui da adolescente stavo diventando adulto, un giovane adulto, ho avuto serissimi problemi a relazionarmi con l’idea di uscire, di affrontare la vita. Chiaro, non è stato niente di patologico, di qui il fatto che i miei possano non essersene neanche accorti, ma così è stato. L’idea anche semplice di uscire per andare al pub, nel mio caso il Boccale, davanti alla chiesa della Misericordia, in Ancona, birra Adelscott e patatine, il mio sabato sera, mi costringeva a passare ore in bagno, colto da attacchi di coliche. Il terrore di non riuscire, magari, pensate che cosa stupida, a trovare poi un bagno libero, mi spingeva a ritardare l’uscita, a evitarla, a volte, in tutti i casi mi faceva stare tutto il tempo a pensare che, porca l’oca, un attacco di colite sarebbe potuto arrivarmi sul più bello, costringendomi davanti ai miei amici, prima, alla mia ragazza, Marina, colei che oggi è mia moglie, poi, a correre verso il bagno, nella speranza di non trovare la coda.
Una volta, parlo di quando avevo, vado a memoria, che so?, diciannove, venti anni, nel tragitto che divideva proprio casa mia da quella da Marina, nello specifico casa di Marina dalla mia, perché me ne stavo tornando a casa, era circa mezzanotte, lo ricordo perché a una certa ora le corse dei bus finivano e tornare a piedi non mi sembrava il caso, ho cominciato a pensare che se un attacco di colite mi avesse colto lì, in autobus, sarebbe stato un vero casino, fatto che ovviamente me lo ha fatto arrivare. Fitte potentissime all’intestino, di quelle che, allora, mi facevano contorcere, alzare una gamba nel tentativo di trattenermi, emettere gemiti spaventosi.
Pensate la scena. Siamo sull’autobus 1 barra 4, quello che attraversa la città di Ancona, dal centro a Tavernelle. Sono salito dalle parti della stazione e sto tornando verso il centro, dove abito coi miei. Quindi sì, ho sicuramente meno di venti anni, perché poi mi sono trasferito in periferia, a Posatora. Inizio a pensare al fatto che lì, sull’autobus, non c’è un bagno. Ci penso ossessivamente per il tragitto che dalla stazione porta verso il centro. Arrivato dalle parti del porto, che è in centro, ma non esattamente dove abito io, cominciano a arrivarmi le fitte all’intestino. Potentissime. Mi contorco. Capisco che non riuscirò a trattenermi. Che non riuscirò a arrivare a casa. Mi avvicino, contorcendomi, all’autista, nel mentre abbiamo superato piazza Roma, la piazza che divide a metà il tragitto di Corso Stamira, quello che mi porterà a Piazza Cavour, dove scenderò per andare poi a coprire circa trecento metri a piedi prima di arrivare a casa mia, in Piazza Malatesta. Subito dopo Piazza Roma, siamo nel passaggio tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, sulla destra, c’era il palazzo della Provincia, all’epoca in ristrutturazione, oggi chiuso a causa della troppa presenza di amianto, e anche della morte dell’istituzione Provincia stessa. C’è, quindi, una struttura in legno che ricopre l’edificio della Provincia, con una specie di galleria, un tunnel sempre in legno, coperta, dentro la quale possono passare i pedoni senza correre il rischio di venire arrotati da autobus e macchine, il marciapiede è coperto appunto dall’impalcatura.
I dolori sono lancinanti.
Chiedo all’autista di fermarsi, ben sapendo che non può farlo fuori dalle fermate preposte. La prossima è in realtà quella di Piazza Cavour, nella quale dovrei scendere. Saranno neanche cinquecento metri, forse neanche quattrocento, ma sono comunque troppi, per me.
Sto per cagarmi addosso, questo significa nei fatti essere colpito da attacchi di coliche. Fino a questo momento ve l’ho raccontato in quel modo perché questo voleva e doveva essere un racconto tragico, ma così è.
Ho passato anni terrorizzato di cagarmi addosso lontano da un bagno. E questo sta per accadere ora. Sull’autobus 1 barra 4, a mezzanotte circa di un giorno verso la fine degli anni Ottanta.
Mio padre, nota di colore, lavora all’ATMA, lavorava al momento dei fatti che sto raccontando, tanto per dare al tutto un tono ancora più tragicomico, lo so che il racconto non ha più i connotati tragici che gli avevo dato inizialmente parlando di attacchi di panico, pazienza.
Mi sto per cagare addosso, e chiedo perentorio all’autista di farmi scendere lì, a metà del tragitto tra una fermata e l’altra. L’autista mi risponde che non è possibile, non si può. Non mi ha riconosciuto. E non parlo del riconoscermi perché faccio radio e televisione, all’epoca tutto ciò non è neanche nell’anticamera del mio cervello. Ho diciannove, venti anni. Non mi ha riconosciuto in quanto figlio di un suo collega, mio padre lavora negli uffici, sta per andare in pensione, quello è un autista giovane.
In realtà che sia un autista giovane me lo sto inventando adesso, perché la vergogna per quell’episodio me lo ha fatto rimuovere dalla memoria, ricordo il fatto ma non la faccia di chi era presente. Vergogna che evidentemente ho superato, visto che vi sto raccontando il tutto nei minimi dettagli.
All’epoca ho i capelli lunghi. Anche adesso ho i capelli lunghi, ma all’epoca molto di più. Li porto fino a metà schiena, sempre ricci. Ho meno barba di adesso, non perché non me la stia già facendo crescere, ma perché sono più giovane e ne ho oggettivamente di meno.
Quindi c’è questo ragazzo molto magro, anche questo è cambiato nel mentre, coi capelli molto lunghi e la barba che si lamenta e chiede all’autista di fermarsi, così, in mezzo al tragitto tra due fermate. L’autista risponde ligio di no. È mezzanotte, sull’autobus ci sono poche persone, credo. Quindi c’è questo ragazzo che si lamenta che grida di fermarsi, adesso. L’autista, immagino, penserà che si tratti di un tossico, non sa che il ragazzo sta per cagarsi addosso e non sa che il ragazzo che sta per cagarsi addosso non si è mai fatto neanche una canna in vita sua, né che continuerà a non farsene. L’autista, quindi, inchioda l’autobus, lì, poco dopo Piazza Roma. Non dice niente, apre le porte e lascia che il ragazzo, che continua a contorcersi, alzando le gambe come se stesse palleggiando con le ginocchia, tipo Cristiano Ronaldo, Cristiano Ronaldo che all’epoca frequenta l’asilo, lì a Madeira, palleggiando con una palla fatta di stracci, lascia che il ragazzo scenda.
Il ragazzo, che sarei io, io che adesso continuerò a usare la terza persona perché il racconto che sto facendo, racconto che voleva inizialmente essere empaticamente tragico, e che presto tornerà a essere empaticamente tragico, ecco, questo racconto ha assunto i toni farseschi della tragicommedia, quindi è il caso di raccontarlo prendendo una certa distanza dai fatti narrati, il ragazzo, quindi, che poi sarei io, scende, contorcendosi.
In questi casi, potrei tornare a citare MacGyver, ma non credo serva, l’essere umano è capace di prendere decisioni immediate senza neanche doverci pensare troppo, le prende d’istinto, e si rivelano spesso quelle giuste. Non sempre, la vita ve lo avrà insegnato a vostre spese, come lo ha insegnato a me, ma stavolta il ragazzo prende al volo la decisione giusta. Entra di corsa, sempre contorcendosi, nel tunnel di legno che costeggia il palazzo della Provincia, quello che permette ai passanti di non finire arrotati, in assenza momentanea del marciapiede. È passata mezzanotte, fortunatamente non c’è nessuno. Anche ci fosse stato qualcuno, ahilui, la storia non sarebbe andata diversamente, e immagino avrete già capito cosa sta per accadere, alla faccia dell’empatia e della tragicità del parlare degli attacchi di panico.
Il ragazzo entra di corsa nel tunnel, si cala i calzoni e caga, lì, a due passi dalla piazza centrale della città nella quale è nato e vissuto fino a quel momento, città nella quale vivrà pochi anni ancora, non a causa di questo episodio, ci terrei a sottolineare.
Uno, a questo punto, potrebbe chiedersi: e come si è pulito poi il culo il ragazzo coi lunghi capelli e la barba?
O si è semplicemente tirato su i pantaloni e se n’è andato a casa?
No, amici, il ragazzo, avendo questa ossessione riguardo la possibilità di essere vittima di coliti violente, torniamo a prendere le distanze dalla comicità degli eventi narrati, da sempre va in giro con voluminose strisce di carta igienica ripiegate ordinatamente in tasca, pronte all’uso. Non che gli siano capitati altri episodi del genere, a memoria e a subconscio amorevole, ma non sia mai che nel bagno del Boccale, del cinema o ovunque arrivi una fitta, manchi la carta igienica. Prevenire è meglio che curare. Prevenire è meglio che pulirsi il culo con le mani.
Quindi il ragazzo caga, si pulisce bene il culo e se ne torna a casa. Fine dell’aneddoto imbarazzante.
Provate a fare la tara. Provate a togliere l’aspetto buffo di quanto raccontato dai fatti stessi.
Ho sofferto pesantemente di attacchi di panico. Certo, non mi chiudevo in una stanza soffiando dentro un sacchetto, senza fiato. Mi limitavo a andare in bagno anche tre, quattro, cinque volte prima di una qualsiasi uscita. Terrorizzato all’idea di aver dentro di me altra merda da espellere una volta uscito. Capite che la cosa può far ridere o sorridere, ma diventa anche un handicap serio. Per me lo era. Pensate quando dovevo andare a fare gli esami a Bologna, all’università, io studente a distanza. Pensatemi, già agitato per gli esami, che dovevo pure farmi un viaggio in treno, percorrere la distanza che divideva la stazione da via Zamboni, dipartimento di Storia Moderna. Certo, non mi faceva fatica suonare in pubblico, ma quella suppongo sia trance artistica, per il resto era un supplizio. Sempre.
Insomma, una vita di merda, letteralmente. Vita di merda che ho condiviso con amici, probabilmente inconsapevoli del tutto, eravamo giovani maschi, nessuno di noi notava dettagli che non riguardassero scollature o jeans, ma soprattutto Marina, che ha subito queste mie manie per i primi anni del nostro fidanzamento. Pensate anche alle nostre prime vacanze, tutte fatte così, tenendo sempre d’occhio ipotetici bar con bagni, o i bagni dei musei, sempre con questa paura.
Magari la sto un po’ ingigantendo, vallo a sapere, ora non è più così, ma è stato davvero un periodo difficile.
Anzi, per farvi capire quanto io fossi fragile, debole, sappiate che anche di notte avevo dei problemi seri, e questa non fa neanche ridere. Mi mettevo a letto, iniziavo a pensare al fatto che, una volta addormentato, avrei smesso di respirare, e di colpo, zac, smettevo di respirare. L’ho raccontato, in non ricordo quale dei miei libri, ma è tutto vero.
So che respirare è una azione che compiamo automaticamente, senza bisogno di pensarci. Ma a me succedeva così, ci pensavo e subito smettevo di farlo. Entravo in apnea, ma da sveglio. Allora dovevo pensare di respirare, per riprendere a farlo. E ogni volta che pensavo di essere riuscito a riprendere a farlo automaticamente, automaticamente smettevo. Una cosa agghiacciante, che succedeva tutte le notti. Al punto che ho iniziato a essere insonne, lo sono ancora, in parte.
Questo è successo da prima della notte della cagata in corso Stamira, già ai primi anni delle superiori. Mi tenevo quindi compagnia ascoltando la radio, il Maurizio Costanzo Show, StereoNotte. La mia passione per certa musica è nata così, per paura di morire asfissiato da me stesso.
A un certo punto, poi, di solito, mi addormentavo sfinito. Ma succedeva sempre tardissimo.
Ricordati di respirare o non respiri, se ci penso adesso mi viene da smettere di respirare, ma è questione di pochi secondi.
Potrei dirvi anche delle vertigini, come sopra. Ma credo non sia necessario. Avete capito di cosa parlo, immagino di aver reso l’idea.
Ero fragile, fragilissimo.
Ho sofferto a lungo di attacchi di panico. Seri. Non da ricovero. Non da psichiatra. Neanche da psicologo, all’epoca non era così diffuso l’uso dello psicologo, specie in certe fasce sociali, come la mia, piccolo borghese, ma comunque attacchi che mi hanno fatto vivere anni di merda.
Poi è successo che, come per gli oggetti morbidi, fragili, la vita mi ha schiacciato davvero. Mi ha colpito, mi ha accartocciato, mi ha ridotto in piccoli brandelli.
Non ha colpito solo me, nel mentre stavo appunto con Marina, colei che oggi è mia moglie, madre dei nostri quattro figli, ma ha colpito anche me. Come lo abbia fatto non sarà parte di questo racconto, non è necessaria, e non cambia il succo del discorso. Sono stato preso come una lattina di Coca Cola, di quelle che le puoi schiacciare con una mano, accartocciare, rendere poco più di un ammasso rosso e color alluminio.
Volessi stemperare anche questo passo di questo mio raccontarmi, potrei dirvi di quando, ancor prima di mettermi con lei, a metà degli anni Ottanta, io e i miei amici di allora, alcuni, penso a Simone, anche amici fraterni di oggi, siamo andati a casa di un nostro amico che aveva una incredibile raccolta di lattine di birra, credo oltre una cinquantina. Ogni lattina una qualità di birra diversa, da tutto il mondo, e di come, in una di quelle nottate che passavamo insieme a fare baldoria, motivo per il quale poi la nostra invincibile squadra di calcetto veniva chiamata da tutti il Gruppo Etilico, anche se eravamo più dediti al luppolo che al vino, benedetta filologia, ecco, volessi stemperare anche questo passo di questo mio raccontarmi, potrei dirvi di come io e i miei amici abbiamo preso quella collezione di birre del nostro amico, uno che non faceva parte del Gruppo Etilico, ma che aveva commesso la leggerezza di invitarci per un fine settimana a fare baldoria da lui, e gliela abbiamo non solo scolata tutta, ma gli abbiamo poi anche schiacciato tutte le lattine, una per una. Potrei aggiungere che lo abbiamo fatto schiacciandocele sulla fronte, ruttando frasi come “Abracadabra”, ma sarebbe troppo.
Ecco, la vita, a un certo punto, ha fatto di me la collezione di birre del mio amico. Mi ha schiacciato, stritolato, ha provato a spezzarmi. Ma mi ha schiacciato talmente tanto da farmi diventare un piccolo pezzetto di metallo duro, compatto, capace di incidere la roccia. Se Dio fosse stato MacGyver, se Dio fosse MacGyver, magari, tutto questo sarebbe stato parte di un piano, di un progetto, un modo per costruire un’arma o permettermi di uscire da una prigione, in fondo la penso abbastanza così.
Di colpo, intorno ai trent’anni, sono diventato un altro uomo. O sono semplicemente diventato un uomo (nel senso di un adulto, non di un macho, sia chiaro). Sono passato dall’essere uno che si riempiva le tasche di carta igienica prima di andare al cinema, dopo aver passato un’ora in bagno provando a evacuare l’evacuabile, a essere una specie di monaco Shaolin, di quelli che stanno sospesi a un metro da terra, immobili, pronti a colpire l’avversario con un dito, uno soltanto, e ucciderli. Essendo il narcisista che sono, l’ho anche sempre dichiarato, sfacciatamente, questo mio essere diventato un ipersicuro. Ho sempre fatto vanto del non agitarmi nel dover parlare di fronte a tanta gente, in alcuni casi milioni di persone, né nel dover fronteggiare situazioni apparentemente infronteggiabili. Sono andato in giro per il mondo da solo, anche in posti molto pericolosi, ho attaccato colossi del sistema musica, non mi sono mai tirato indietro.
Per dire, ma questa ve la racconterò nei dettagli un’altra volta, a Sanremo, il giorno in cui stava per cominciare il Festival, il 4 febbraio, qualche secolo fa, parte della squadra che avrebbe dovuto seguire Attico Monina, quindi le tante dirette che abbiamo fatto qui su Optimagazine come quelle che abbiamo fatto su Rtl 102,5, se l’è data a gambe. Così, nella notte. L’ho scoperto alle cinque e quaranta del mattino, quando colui che in teoria doveva essere a capo di quel manipolo di sodali incaricati di gestire il suddetto Attico mi ha mandato una serie di whatsapp per dirmi che nella notte erano andati via. Alle cinque e quaranta del mattino del giorno in cui tutto sarebbe partito. Ora, fossi stato un me stesso più giovane, suppongo, neanche avrei fatto in tempo a correre in bagno, mi sarei cagato sotto lì, sul letto, dove ho letto quei messaggi, per altro piuttosto sconclusionati. Invece, sono un monaco Shaolin, ripeto, mi sono alzato e, constatato che in effetti se n’erano scappati nella notte, ho cercato una soluzione. E l’ho trovata.
Ho sgomberato la mente dal panico.
Ho sgomberato la mente dalle idee di vendetta. E ho preso in mano la situazione. Infatti la sera siamo partiti con la messa in onda che, spero, avrete seguito durante quei giorni. Cinquantatré ore di diretta, grazie a tutti quelli che non se la sono data a gambe nella notte, parlo di adulti, eh, non bambini o ragazzini inesperti, ma che sono rimasti a fare il proprio lavoro.
Ci sarà poi il tempo della vendetta, ma se ne parlerà più avanti, non è di questo che voglio parlare oggi. Era per dirvi come la vita ti può cambiare, mi ha cambiato.
Ma ieri notte, confesso, per qualche istante sono tornato il me stesso giovanissimo, quello che non riusciva a dormire perché se pensava che non avrebbe respirato nel sonno, di colpo, smetteva di respirare anche da sveglio, quello che se pensava che era in giro e non c’era un bagno vicino, di colpo sentiva le fitte all’intestino e il bisogno impellente di andare in bagno. Intendiamoci, non ho smesso di respirare e non ho avuto fitte, ero sul balcone di casa mia, avrei potuto tranquillamente andare in bagno. Ho semplicemente, per qualche secondo, deciso di non essere più un monaco Shaolin, di lasciarmi andare a qualche incertezza, qualche debolezza, qualche fragilità.
Sono, in sostanza, ridiventato la lattina di birra della collezione del mio amico, un attimo prima che il me stesso giovane la scolasse e se la schiacciasse sulla fronte, magari ruttando. Ero sul balcone, a guardare la strada che scorre sette piani più sotto, deserta.
In genere, in qualsiasi ora del giorno e della notte è piena di auto. Anche troppe, direi, pensando ai miei polmoni e a quelli dei miei vicini, a partire dai miei familiari. Ieri notte, invece, non c’era nessuno.
Nessun pedone sui marciapiedi, men che meno i soliti balordi che dormono sulle panchine del parchetto della piazza che costeggia la strada, nessuna auto in strada. Per i circa due chilometri che la portano a uno dei crocevia più trafficati di Milano, e quindi d’Italia e probabilmente del mondo.
Nessuno.
Solo io, la luna opaca nel cielo, l’assenza di traffico sta regalandoci cieli limpidissimi, e un silenzio assordante. I miei, mia moglie Marina, i nostri quattro figli, Lucia, Tommaso, Francesco e Chiara, mia suocera, tutti a letto, a dormire.
Solo io sul balcone a guardare Milano deserta.
A quel punto, vedi a volte a cosa porta l’autolesionismo, ho deciso di lasciarmi accartocciare, ma stavolta dalla musica, e ho messo sullo smartphone, la cover che Damien Rice ha appena inciso di Chandelier di Sia, canzone che in questi giorni ricorre spesso nei miei scritti, lo avrete notato.
Una versione lancinante, che presto, immagino, troveremo in una di quelle scene iperdrammatiche di Grey’s Anatomy, presumibilmente mentre muore uno dei protagonisti assoluti. Una versione lenta, delicata, sussurrata. E così, a partire da quel “come se il domani non esistesse”, per quei tre minuti, mi sono lasciato andare. Il mio essere una lattina integra appoggiata su una mensola si è trasformato nel giro di pochi secondi nell’essere una lattina accartocciata, i colori che lasciavano spazio al colore dell’alluminio, senza però avere la durezza compatta di cui vi ho parlato sopra, MacGyver momentaneamente fuori dai giochi.
Questi strani giorni ci stanno costringendo, uso un brutto verbo che non condivido, a convivere in maniera coatta ventiquattr’ore su ventiquattro. Damien Rice e la sua Chandelier mi ha permesso almeno tre minuti di convivere col me stesso giovane. Per parafrasare Peter Cameron, un giorno questo dolore mi ha portato a cagare quando e dove volevo io, non è poco.