Il caso Woody Allen e gli eccessi del Me Too

L'annullamento della pubblicazione del libro di memorie di Woody Allen è stato salutato come una vittoria dal #MeToo. Ma per molti altri è un allarmante caso di censura. Il caso Allen si sta trasformando in una persecuzione. Ripercorriamolo

Woody Allen

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Ammettiamolo: nel caso Woody Allen, stavolta il #MeToo è andato decisamente oltre. E ha tratto delle conclusioni affrettate, attuando una persecuzione ai danni del regista e attore newyorkese sulla base di indizi che non costituiscono prove certe. Cominciamo dall’ultimo capitolo dello scabroso affaire. Dopo aver annunciato all’inizio della scorsa settimana la pubblicazione in aprile del memoir di Woody Allen, Apropos of Nothing, l’editore Hachette ha fatto subito dietrofront, dopo il sit-in di protesta di un nutrito gruppo di suoi dipendenti.

Allla manifestazione si sono aggiunte le minacce di Ronan Farrow di non pubblicare più con Hachette – è il giornalista premio Pulitzer, figlio di Mia Farrow e Allen, che ha scoperchiato il caso Weinstein sul New Yorker, autore anche di un libro sul tema, Predatori – e le rimostranze su Twitter di Dylan, figlia adottiva della coppia:

La pubblicazione del libro di Woody Allen è un fatto che mi ha sconvolto. Personalmente è un tradimento alla mia persona e anche nei riguardi di mio fratello. Non sono mai stata contattata per affermare o smentire la veridicità delle informazioni del libro. Questo mi fa pensare che la casa editrice possa essere venuta meno alle sue responsabilità. Questo fornisce un altro tipo di esempio: ci sono ancora diversi privilegi per chi possiede il potere del denaro e della fama.

Ronan e Dylan Farrow, i due figli di Mia Farrow e Woody Allen

Troppe le pressioni, l’editore ha fatto marcia indietro. Ha dichiarato Sophie Cattrell, vice presidente senior della comunicazione di Hachette:

La decisione di cancellare il libro del signor Allen è stata difficile. In HBG prendiamo molto sul serio le nostre relazioni con gli autori e non cancelliamo i libri alla leggera […]. Inoltre, come azienda, ci impegniamo a offrire un ambiente di lavoro stimolante, solidale e aperto a tutto il nostro personale. Negli ultimi giorni, la dirigenza di HBG ha avuto lunghi confronti con il nostro staff e altri. Dopo averli ascoltati, siamo giunti alla conclusione che andare avanti con la pubblicazione non sarebbe possibile per HBG.

L’accusa di molestie a Woody Allen

Tutto ruota intorno all’accusa rivolta a Woody Allen di aver molestato sessualmente la figlia Dylan, il 4 agosto del 1992, quando la bambina aveva sette anni. Un’accusa che, è bene ricordarlo, non si è mai trasformata in un’incriminazione né ha portato a un processo. In due diverse occasioni sono state condotte delle indagini. La prima, della Clinica per gli abusi sessuali dello Yale/New Haven Hospital, una perizia richiesta dallo stesso regista, stabilì non esserci stata alcuna violenza, aggiungendo che le dichiarazioni della piccola Dylan, registrate da Mia Farrow, erano “probabilmente istruite o influenzate dalla madre” (successivamente il giudice per la causa di affido dei figli, pur confermando la mancanza di riscontri medici della violenza, sostenne di non credere che Dylan fosse stata plagiata). Poi è stata un’altra indagine del Dipartimento dei Servizi Sociali dello Stato di New York a confermare che “Non è stata trovata alcuna evidenza attendibile che la bambina abbia subito abusi o maltrattamenti”.

Venti di censura

Questa è la seconda volta, in anni recenti, che sono state chiuse le porte in faccia a Woody Allen. Era successo con il suo ultimo film, Un Giorno Di Pioggia A New York, che Amazon dopo aver prodotto non aveva distribuito per le troppe polemiche, con diversi attori, da Timothée Chalamet a Selena Gomez, che per tutelare la propria immagine avevano preferito prendere le distanze dal regista con cui avevano appena lavorato. Allen intentò una causa da 68 milioni di dollari, Amazon per evitare il peggio scelse un accordo extragiudiziale per una cifra top secret. Adesso è stata la volta del memoir. Che però, è una notizia, in Italia verrà pubblicato il 9 aprile, con il titolo A Proposito Di Niente, da La Nave di Teseo. Il direttore editoriale Elisabetta Sgarbi in un tweet ha affermato che “è un accordo che intendo rispettare con l’autore e non ritengo ammissibile censurare un’opera letteraria o un film“.

Censura è la parola che viene rimpallata da un articolo all’altro. L’ha impiegata Pierluigi Battista sul Corriere della Sera di ieri: “Il risultato della stupidità alimentata dal fanatismo ideologico è un nuovo rogo di libri, il trionfo della censura arrogante”. L’ha usata anche il britannico Guardian: “Questo è un comportamento da censori, non da editori”. Sulla stessa lunghezza d’onda lo scrittore Stephen King, uno dei pochi a difendere Allen in un tweet: “La decisione di Hachette di abbandonare il libro di Woody Allen mi mette molto a disagio. Non è per lui; non me ne importa niente del signor Allen. È la prossima persona a cui verrà messo il bavaglio a preoccuparmi”.

Il caso Weinstein e la caccia alle streghe

Le accuse rivolte ad Allen, rispetto al 1992 cui si riferiscono i fatti, oggi sono diventate molto più pesanti. Anche per merito di Ronan Farrow, e del suo ruolo nel caso Weinstein che nel 2017 ha dato la stura al movimento #MeToo. Il quale se non ha abbattuto, ha finalmente incrinato il muro di omertà del mondo dello spettacolo e del lavoro in generale, in cui molestie sessuali e violenze ai danni delle donne sono state merce comune, secondo quel rituale eufemisticamente definito del “sofà del produttore”.

È stato un salutare, necessario cambio di paradigma, che ha terremotato l’ambiente, portando a licenziamenti, dimissioni, sentenze esemplari, prima fra tutte proprio la recentissima condanna dell’ex mogul della Miramax e della Weinstein Company. Portando però anche a eccessi di zelo e attacchi basati sui si dice o su indizi che non si trasformano in prove. Esattamente ciò che è successo a Woody Allen il quale, diversamente da Weinstein o dal reo confesso Roman Polanski, non è colpevole di crimini accertati. Ma resta perennemente imputato in una causa senza processo, che non gli offre perciò nemmeno l’opportunità di difendersi. Proprio lui, all’inizio della bufera Weinstein, aveva messo in guardia dai pericoli di una possibile caccia alle streghe, della quale, prevedibilmente, è finito per essere la vittima.

Nell’atmosfera surriscaldata dell’opinione pubblica americana di oggi, alcuni dettagli della vita di Woody Allen suonano come una prova di colpevolezza. Primo fra tutti il matrimonio del regista, quando aveva già più di sessant’anni, con la poco più che ventenne Soon-yi, vale a dire la figlia adottiva di Mia Farrow e del suo secondo marito André Previn. Comprensibilmente, può destare perplessità il rapporto tra Allen e una ragazza per la quale, pur non essendo mai stato formalmente suo padre, ha rappresentato comunque qualcosa che potrebbe essere definita una figura genitoriale. “Amico, quello ha sposato sua figlia”, ha ribattuto infatti qualcuno al tweet di Stephen King, che ha scatenato commenti disinvolti a base di “pedofilo” e “predatore sessuale” indirizzati a Woody Allen. Ma può un comportamento certamente inusuale costituire una prova a carico?

Soon-yi e Woody Allen

Rispetto al legame tra il regista e Soon-yi valgono le parole che usò un paio d’anni fa un altro figlio adottivo di Mia Farrow, Moses: “Sì, è stato poco ortodosso, scomodo, dirompente per la nostra famiglia e ha ferito terribilmente mia madre. Ma la relazione stessa non è stata così devastante quanto l’insistenza di mia madre nel mettere questo tradimento al centro di tutte le nostre vite da allora in poi”.

Moses Farrow nel 2018 intervenne con una lunga testimonianza per reagire alle accuse reiterate della sorella Dylan a Woody Allen: “Dati gli attacchi incredibilmente inaccurati e fuorvianti su mio padre, sento di non poter più tacere, mentre continua a essere condannato per un crimine che non ha commesso”. Un punto di vista che non può essere reputato una verità incontrovertibile, d’accordo. Ma che dice alcune cose significative e incrina alcune certezze. Prima di tutto, asserendo l’impossibilità, a suo avviso, che quel 4 agosto 1992, in una casa piena di gente, si possa essere consumata la violenza ai danni di Dylan.

La storia della famiglia Farrow

Moses nella sua memoria ricostruisce la storia della famiglia Farrow. Che parte dal padre di Mia, John, regista col vizio del bere e con fama di donnaiolo che, secondo quanto la stessa Mia avrebbe confessato al figlio, l’avrebbe resa oggetto di molestie. Inoltre, dei fratelli di Mia, uno è morto suicida nel 2009, un altro è stato condannato nel 2013 a dieci anni per abusi su minori.

Mia Farrow è stata sposata appena ventunenne con Frank Sinatra, per un paio d’anni, e poi lungamente con il musicista André Previn, con il quale ebbe quattro figli e ne adottò altri due fino al divorzio del 1979. Dopo adottò altri due bambini, Moses e Dylan, poi adottati nel 1991 anche da Woody Allen, che nel frattempo era diventato il suo nuovo compagno, ma non marito, fino al 1992. Nel 1987 nasce il loro unico figlio naturale, Satchel, che poi ha assunto il nome di Ronan. Col quale, lo si ricava dal libro di memorie di Mia Farrow, Quel Che Si Perde, il regista non legò mai, preferendogli Dylan. Successivamente la Farrow dichiarò che il padre naturale di Ronan era Sinatra. Dopo la rottura con Allen, la Farrow ha adottato tra il 1992 e il 1995 altri cinque bambini, per un totale di quattordici figli.

Moses e Soon-yi – quest’ultima in un’intervista del 2018 molto contestata da Dylan e Ronan – sostengono che la vita in casa fosse tutt’altro che idilliaca, e che i rapporti con la madre, assertiva e tendenzialmente punitiva fossero molto tesi. Moses parla senza mezzi termini di tendenza materna al “lavaggio del cervello”. Uno scenario nel quale un figlio adottivo si è suicidato, un altro è morto per un abuso di pillole forse intenzionale e una terza è scomparsa nel 2008, presumibilmente per Aids.

La cornice dell’affaire Farrow-Allen è una storia familiare non esattamente tradizionale, segnata da tragedie e conflitti profondi. Non la si può ridurre, come in una cattiva sceneggiatura, a una vicenda di odio insanabile di una donna tradita che avrebbe istigato la figlia Dylan a dichiarare il falso per rovinare l’ex compagno, né alla vendetta di un figlio ripudiato, Ronan, verso il padre o di un altro, Moses, verso la madre. Nessuno di noi possiede gli strumenti per districare il vero dal falso o per giudicare a cuor leggero i loro comportamenti. Non di meno, però, di fronte a questo coacervo di rancori e sentimenti esacerbati non può essere la mannaia semplificatrice del MeToo ad assestare il colpo definitivo a Woody Allen, mettendolo alla gogna per colpe non dimostrate, rimpallate per trent’anni senza che si giunga mai a una parola definitiva.

Proprio per mantenere fede al suo desiderio di giustizia, il movimento deve ripudiare condanne sommarie basate su presupposti non comprovati. Nel caso di Allen oltretutto, c’è un elemento che lascia perplessi: l’unicità della violenza commessa. Ricorda ancora Moses:

In questo periodo di #MeToo, quando così tanti pesi massimi del cinema hanno affrontato dozzine di accuse, mio ​​padre è stato accusato di aver commesso un crimine solo una volta, da una ex partner incollerita, nel bel mezzo delle polemiche trattative per la custodia. Durante quasi sessant’anni nessun’altra persona si è fatta avanti per accusarlo di essersi comportato male o aver agito in modo inappropriato in qualsiasi situazione professionale, e tanto meno aver molestato una bambina. Come professionista qualificato [Moses è psicologo specializzato in terapia familiare, ndr], so che la molestia infantile è una malattia compulsiva e una deviazione che richiede ripetizione. Dylan era stata sola con Woody nel suo appartamento innumerevoli volte nel corso degli anni senza che accadesse nulla di sconveniente, ma alcuni vorrebbero far credere che all’età di 56 anni, improvvisamente ha deciso di diventare un molestatore di bambini in una casa piena di persone ostili a cui era stato ordinato di scrutarlo come un falco.

A voler essere più precisi, è poi emersa una storia relativa agli anni Settanta, la relazione tra un Allen quarantunenne e una giovane modella all’epoca 16enne, Babi Christina Engelhardt, dove però fu tutto consensuale, per quanto discutibile. Più o meno è la vicenda raccontata nel film Manhattan, un tempo celebrato come capolavoro, ma che oggi risulta quasi imbarazzante per la naturalezza con cui racconta la relazione tra un adulto e una diciassettenne, rischiando di suonare come una ulteriore prova a carico secondo i detrattori di Allen. Però qui sono in gioco vite e carriere di persone e famiglie. Bisognerebbe riflettere attentamente prima di emettere sentenze affrettate che le distruggono.