C’è qualcosa di paradossale in Un Giorno Di Pioggia A New York, 49esima regia di Woody Allen. Perché il film che grazie alla distribuzione di Lucky Red è possibile vedere in Italia in sala dal 28 novembre, è stato abbandonato tutti. Da Amazon che l’ha prodotto e poi non l’ha proiettato né al cinema né sulla propria piattaforma – Allen ha fatto causa per 68 milioni, trovando un accordo extragiudiziale per una cifra top secret). E dagli attori, Timothée Chalamet, Selena Gomez, Rebecca Hall, che hanno prudentemente preso le distanze devolvendo il cachet ad associazioni che si occupano di donne maltrattate. Tutto questo per il ritorno in prima pagina di vecchie accuse di molestie dalle quali Woody Allen fu già scagionato due volte molti anni fa, aggravate da alcune dichiarazioni del regista, che non gli sono state perdonate, sul ritorno di un’aria da “caccia alle streghe” quando esplose il caso Weinstein.
Un Giorno Di Pioggia A New York però è qui e sarà il caso di parlarne senza pregiudizi, anche perché è la migliore commedia alleniana di questo suo ultimo, generalmente involuto periodo. Una commedia in toccante equilibrio tra romanticismo e malinconia, in cui anche i tanti stereotipi sulla città più bella del mondo (che è comunque un concentrato di “ansia ostilità e paranoia”, come dice il protagonista) sono riscattati da una sincerità e voglia di (auto)analisi che regalano al racconto un profumo di autenticità che scava dentro.
Al centro della storia c’è il weekend nella Grande Mela di una giovane coppia che ha tutto, rampolli di un’America bene e superprivilegiata. Lei è la reginetta del college Ashleigh (Elle Fanning), figlia di banchieri dell’Arizona. Lui, che si porta appresso un nome letterario e improbabile, Gatsby Welles (Chalamet), è un insoddisfatto, indeciso e inconcludente con pose da pecora nera della famiglia, amante di vecchi film e vecchie canzoni (“cerca il romantico sogno di un’epoca svanita”, dice Ashleigh), e però anche del brivido proibito – è un eccellente giocatore di poker.
L’occasione del viaggio è offerta dall’intervista di Ashleigh per il giornale universitario a un famosissimo regista del cinema indipendente, Roland Pollard (Liev Schreiber). Il quale, guarda un po’, è in piena crisi creativa per il suo nuovo film che reputa orribile. E poiché la ragazzina gli ricorda la sua prima moglie, la prende a benvolere e qualcosa di più, e le fa vedere in anteprima il premontato. Da lì Ashleigh finisce prima accanto al suo sceneggiatore (Jude Law) e poi direttamente tra le braccia d’un seducente e vanesio attore dall’accento spagnolo (Diego Luna).
Mentre lei vive la sua prima rutilante esperienza newyorkese, piena di promesse, rischi, ambizioni, tentazioni, Gatsby si accuccia nel suo sogno gonfio di sentimentalismo melanconico, nella New York che Allen più ama. Vaga sotto la pioggia incessante fumando vezzosamente da un lungo bocchino da divo del muto, incrocia registi uguali al Woody giovane che girano “un moderno noir classico”, va al Metropolitan Museum of Art e si nasconde dentro la sezione egizia, suona vecchie canzoni al pianoforte del bar del Carlyle sull’Upper East Side.
Insomma, gira per una città che è impossibile dire se sia reale o cinematografica, autentica o completamente inventata. Ovviamente è le due cose insieme, è un luogo esistente ma trasfigurato dal desiderio di un’altra vita, perfetta come quelle del cinema. “La vita reale è per chi non sa fare di meglio”, gli dice infatti Chan (Selena Gomez), vecchia conoscenza in cui Gatsby s’imbatte e che sarebbe la ragazza perfetta per lui, se non pensasse, o credesse di pensare ancora ad Ashleigh.
In un certo senso è tutto già visto in Un Giorno Di Pioggia A New York, la cinefilia, gli interni di buon gusto dei quartieri alti, quel senso di artefatto nella definizione dei personaggi coi loro prevedibili mal di pancia sentimentali ed esistenziali. A un certo punto però una conversazione tra il viziato Gatsby e la madre (Cherry Jones) spezza in due il film. E non solo da lì in poi le cose cambiano: ma anche quello che si è visto fino a quel momento acquista un significato diverso.
Tanto lo spettatore quanto il protagonista sono costretti a fare, più sinceramente e mettendo da parte le pose col bocchino, i conti con la realtà. Ciò non vuol dire che non ci sia più spazio per il romanticismo da cinema sotto il Delacorte Clock a Central Park, come fossimo ne L’Ora Di New York di Vincente Minnelli. Ma adesso siamo pienamente consapevoli, spettatori e Gatsby, di quel che stiamo facendo e soprattutto cercando. Il che significa che i sogni possono avverarsi e che un’altra vita è sempre possibile. Che l’84enne Allen, tra vecchiaia e traversie varie, sappia ancora consegnare un grumo di speranza – e classe, e cinefilia – alle generazioni a venire, è una gran bella notizia.