Achille Lauro: perchè le major litigano per uno che con le sue performance ipercurate ha fatto meno rumore di Morgan con 4 parole su un foglietto?

Warner e Sony si stanno contendendo un artista che non è andato oltre il disco d'oro e che ha portato al Festival performance che Lady Gaga porta in giro da anni


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Tantissimi anni fa ho vissuto un’esperienza tremenda. Di quelle che, appunto, a distanza di tanto tempo ricordo alla perfezione, nonostante io abbia la memoria di un pesce rosso, e che non solo ricordo alla perfezione, ma nel momento esatto in cui la ricordo, ora che scrivo, per dire, rivivo esattamente con la stessa intensità emotiva, e vi giuro che non è nulla di lontanamente piacevole.

Ero in casa mia, a Milano, con un amico che ci era venuto a trovare da Ancona. Stavamo sul divano a guardare la tv, una di quelle ancora con il tubo catodico, lo dico tanto per farvi capire che di ricordo lontano si tratta. A un certo punto, per ragioni che esulano la mia volontà, e a memoria direi anche la volontà del mio amico, il telecomando ci porta su un canale che trasmette un documentario sul mondo degli animali. Stiamo parlando non solo di un’epoca sprovvista di televisioni ultrapiatte al plasma, ma anche di televisioni on demand e a pagamento. Pochi canali, generalmente concentrati sulla prima decina di numeri del telecomando. Sia come sia finiamo su questo canale che trasmette documentari sul mondo degli animali, e ci fermiamo a guardare. So che potrei essere poco credibile a riguardo, avendo io un marchio che proprio a un animale fa riferimento e avendo in passato scritto pezzi anche di un certo successo che proprio sul mondo degli animali ruotavano, seppur finendo poi per parlare di musica, il mio settore, ma a me del mondo degli animali non è che freghi tantissimo. Per capirsi, non sono uno di quelli che se gli dici il nome di un animale strano ti spiega per filo e per segno le sue caratteristiche, e anche oggi, superati i cinquanta, fatico a distinguere un ghepardo da un giaguaro, a meno che il giaguaro in questione non sia Piotta, che approfitto per salutare. Comunque io e il mio amico, da tempo non più tale, ci fermiamo su questo canale che trasmette documentari sugli animali, incantati. In realtà, tanto per non prendervi per il culo, non credo che di incanto si possa parlare. Più di noia, di stanchezza, di quella strana forma di afasia che colpisce chi, in effetti, non ha un cazzo da fare e sta cercando l’ausilio della televisione per sopperire a tutto questo. Dentro la mia televisione, comunque, una televisione col tubo catodico che qualche amico ci ha regalato per il nostro matrimonio, fossi mia moglie Marina vi saprei anche dire chi, ma io ho la memoria di un pesce rosso, l’ho già dichiarato più volte, c’è questo documentario. E dentro questo documentario ci sono dei koala. Nessuno può provare antipatia per i koala, mi sento di azzardare questa teoria. Sono simpatici, i koala, sono teneri, sono anche carini alla vista. Poi, ma questo all’epoca non lo potevo sapere, perché di cambiamenti climatici non stava ancora parlando manco Al Gore, per intenderci, figuriamoci noi uomini della strada, oggi lo sono anche di più, perché l’Australia è andata in fiamme, lo abbiamo seguito tutti con apprensione, e i koala sono stati colpiti dalla violenza del fuoco, impotenti di fronte a una forza più grande di loro. Anche perché, di qui anche la loro simpatia, i koala sono innocui, paciosi, giocherelloni. Pigri, anche, li abbiamo sempre visti attaccati a un albero, abbracciati a un albero, immobili. Ecco, i koala sono animali che abbracciano gli alberi, ma senza essere di quelli che, in genere uomini, danno a quel gesto una valenza panteista, di amore universale. Sono cioè esseri viventi tendenzialmente buoni, buonissimi, ma non ci cagano il cazzo con le loro teorie di amore universale che, in genere, partono col dire che siamo tutti fratelli e finiscono con insulti e shit storm sui social. Qui potrei anche aprire una piccola parentesi su come degli incedi in Australia, da un certo punto in poi, a nessuno sia fregato più un cazzo, al punto che sfiderei chiunque a dire se sono proseguiti o si sono magicamente interrotti, un po’ a causa del Coronavirus e poi, ma questa è una specialità tutta italiana, del Festival di Sanremo, capace di archiviare momentaneamente non solo gli incendi, ma anche la Terza Guerra Mondiale e tutto il resto.

Torniamo ai koala, però. Abbiamo visto tutti il video in cui il piccolo kaola beve dalla borraccia del ciclista, scampato all’incendio. Ci siamo inteneriti, lo abbiamo amato. Abbiamo visto tutti anche il koala che sta abbracciato a Brian May dei Queen, mentre questi, i capelli lunghi e ricci ormai tutti bianchi, suona la chitarra, insomma, siamo sul pezzo. Ma qui stiamo parlando di un sacco di anni fa, quando ancora c’erano le tv col tubo catodico e quando non c’erano le tv on demand. Io e il mio amico, ormai ex amico, stiamo guardando la tv sul divano e ci fermiamo su questo canale che passa un documentario sugli animali.  Inizia un documentario sui koala, e io e il mio amico manifestiamo un minimo di entusiasmo. Minimo di entusiasmo, intendiamoci, dovuto a due ragioni specifiche. Primo, siamo stravaccati sul divano in assenza di un pubblico a cui del nostro entusiasmo possa fregare qualcosa, e un po’ come si fa con le risate sui social, che scriviamo mettendoci pure gli emoticon mentre il nostro viso non manifesta neanche uno straccio di sorriso, sorridere senza nessuno che ne benefici, per quanto ci abbiano rotto il cazzo con la faccenda che sorridere fa bene, è esercizio inutile e faticoso, ci hanno anche spiegato che per sorridere si usano un tot di muscoli, perché usarli a vuoto? Altro motivo, ma qui mi addentrerei in un discorso spinoso, che non credo sia utile alla causa che sto affrontando, anche se forse un po’ è inerente, visto che di fluidità sessuale si è molto parlato, a riguardo del protagonista della storia che state leggendo, non certo un koala, altro motivo è  che il mio amico, ora non più tale, è gay, ma non ha ancora trovato le parole per dirmelo. Io lo so, lo sa anche mia moglie, non è che sia un segreto di stato, ma lui è venuto a Milano proprio per quello, per “dirci una cosa importantissima”, lo sappiamo tutti, ma sta tergiversando, riempiendo queste giornate milanesi di un certo imbarazzo. Immagino tema, siamo in un’altra epoca e veniamo tutti dalla provincia, in una nostra reazione scomposta, timore mal riposto, ma di fatto stiamo passando le giornate a non parlare di nulla, guardando la tv stravaccati sul divano in attesa di questa benedetta cosa importante che ci deve dire. Succederà qualche giorno dopo, da un fine settimana la sua permanenza a Milano si trasformerà in un paio di settimane, e il nostro non meravigliarci darà al tutto un tocco di surrealtà, perché avremmo potuto spicciarci in maniera molto meno impegnativa, ma forse certi passi vanno fatti con calma, o andavano fatti con calma quando ancora certi argomenti erano taboo, vallo a sapere. Comunque non voglio parlare del mio amico, ormai ex tale, e del suo coming out, ma del documentario sui koala. Io e il mio amico stiamo sul divano, la tv col tubo catodico di fronte, quando ecco che si comincia a parlare di koala. Appena comincia questo documentario, in automatico, penso che sarà tipo un fermo immagine, perché io i koala li ho sempre visti così, immobili, abbracciati agli alberi. Quando ero piccolo ne avevo anche uno, giocattolo, piccolino, di quelli le cui zampe si aprivano come una molletta si premevi la pancia, così da poterlo appendere dove volevi, tipo alla maniglia di una porta o di una finestra o alla abat jour. In realtà, e qui è il vero motivo di questo mio parlare reiteratamente dei koala, il documentario ci mostra qualcosa che ci chocca, assai più della notizia, ancora non detta, che il mio amico in realtà è gay. Perché il documentario ci dice che i koala non vivono la loro vita appesa agli alberi, come da tradizione ci hanno fatto credere. Il documentario in questione, infatti, ci fa vedere nell’ordine, i koala che trombano, i koala che si muovono in giro per quello che è il loro ambiente naturale, e questo, lo confesso, non ve lo saprei descrivere, perché a parte lo choc non è che io abbia memorizzato proprio tutto di quel documentario e, attenzione attenzione, i koala che si scontrano violentemente per una femmina. Ecco, immaginateci lì, sul divano, io e il mio amico, ormai ex tale, che ancora non ci ha detto che è gay, e sia chiaro, il mio amico non è più tale non perché poi ce lo ha detto, lo sapevamo già tutti che era gay, ma perché si è dimostrato una incommensurabile testa di cazzo, e se lo posso dire senza paura di essere tacciato di omofobia è proprio perché, appunto, ritengo serenamente che un gay sia in potenza una testa di cazzo tanto quanto un etero, lo dico a beneficio di quanti aggiungono in genere alla frase “è gay”, qualcosa che suoni come “è simpatico” o “è così sensibile”, stronzate razziste, sia messo agli atti. Quindi, immaginateci lì, sul divano, io e il mio amico, ormai ex tale, che ancora non ci ha detto che è gay, quando sullo schermo della tv col tubo catodico comincia a andare in scena una lotta violenta tra koala, finalizzata alla conquista di una femmina. Tutti dettagli che in sé sarebbero già choccanti, figuriamoci se messi uno dietro l’altro. Ci sono questi due esseri paffuti e carini che se le danno di santa ragione, violentemente, senza però sortire nulla di evidente. Non hanno denti aguzzi, non hanno unghie lunghe, non sono manco particolarmente muscolosi, i koala, e a questo punto potrei anche azzardare che hanno cazzetti piccolini, spiace per la piccola koalessa oggetto delle loro attenzioni, quindi i due koala si limitano a darsi buffetti sulle guance, che non portano né a KO tecnici né a ferite sanguinanti. La cosa, temo, dura per qualche minuto, con me e il mio amico, ormai ex tale, sconvolti. Perché è come se di colpo ci avessero mostrato i nostri genitori che fanno sesso, nessuno di noi aveva mai associato i koala al sesso, anche se in effetti entrambi credo avessimo all’epoca meno coinvolgimento con la specie in questione, e soprattutto ci avessero detto che, che so?, San Francesco in realtà le dava di santa ragione ai suoi confratelli. Roba incredibile, sesso e violenza buttato impunemente in un mondo di vezzosi orsacchiottini che noi sapevamo immobili e abbracciati agli alberi. Sono passati oltre venti anni e ancora siamo qui a ricordacelo, io, sicuramente, e anche il mio ex amico, la testa di cazzo, da qualche altra parte nel mondo. Uno choc, senza pari.

Ora, qualcuno di voi si chiederà perché da oltre diecimila battute io me ne stia qui a parlarvi di un documentario sui koala, documentario che ci ha aperto a un mondo di sesso estremo e di violenza inaudita. Ecco, è di ieri la notizia che Achille Lauro, forte delle circa ventisettemila copie vendute dal suo ultimo album 1969, ha appena firmato come Chief Creative Director per la Elektra Italia, in seno alla Warner. La Elektra Italia che, per intenderci, non esisteva, fino a ieri, perché il marchio Elektra è di quelli storici, è vero, dai Doors ai Queen, passando per i Kyuss, faccio qualche nome al volo, sono usciti da lì, ma non dall’Italia, un po’ come succede alla Atlantic, che ha in seno Ghali, o alla Island, che a capo Gino con le Mutande, figuriamoci. Resta che la Warner ha affidato, proprio nel giorno in cui è stato dato l’annuncio dell’imminente addio momentaneo, che è una sorta di Ciao cui qualcuno ha deciso di dare un valore economico, alle scene Benji e Fede, che della medesima major sono tra gli artisti più di peso, resta che la Warner ha affidato a Achille Lauro un ruolo di prestigio, non fosse altro perché così ce lo hanno raccontato, loro e anche lui. Non solo, loro e anche lui ci hanno anche raccontato che Achille Lauro, quell’Achille Lauro che è stato a Sanremo vestito dalla qualunque solo una decina di giorni fa, in forza alla Sony, da adesso uscirà come artista per la medesima casa discografica, e fin qui nulla di strano, non essendo Tony Mottola è facile pensare che sarà proprio Achille Lauro l’artista di maggior successo a uscire per la Elektra Italia, e sticazzi. Solo che, ecco i koala, neanche il tempo di apprendere con sgomento la cosa, perché se siete tra quanti amano la musica a vedere quel marchio associato a quel nome vi sarà venuto un conato di vomito, ecco che la Sony ci ha tenuto a sottolineare come no, compagni, contrordine, Achille Lauro è roba loro. In effetti tutti ricordiamo le foto social, non sono passati neanche due anni, con i dirigenti della major in questione a brindare con bicchieri di plastica per la firma del suddetto. Roba da vedersi risalire le palle su per i condotti testicolari, raccapriccio vero. A questo comunicato, asciutto quanto piccato, ha fatto ovviamente seguito un nuovo comunicato, stavolta da parte del manager di Achille Lauro, che sottolinea come non ci sia più alcun legame tra questi e la Sony, buttando sul piatto che tutti lo sapevano da tempo. Non solo, tanto per non farsi mancare nulla, si dice pure che Achille Lauro ha affrontato Sanremo da solo, in sostanza una sorta di dolce Remi abbandonato dalla Sony, lui che in queste ore ha provato a riappropriarsi dello spazio scippato alle sue performance gucciane da Morgan a suon di interviste in cui parla del padre magistrato e interviste del padre magistrato che parla di lui. Non fossimo nel campo della farsa verrebbe da mettersi comodi sul divano, sempre quello, con i popcorn in mano. Ma in realtà, e qui arriviamo al tema dell’articolo, siamo di fronte a uno scontro tra koala, la Warner e la Sony, che se le stanno dando pubblicamente di santa ragione, quando nei fatti dovrebbero in caso parlare in tribunale, per Achille Lauro. Koala che si danno buffetti sulle guance, senza denti e unghie, per poi trombarsi con il loro pisellino corto una koalessa che preferirebbe stare abbracciata a un albero, metafora che non credo abbia bisogno di didascalie. Due delle tre major, perché, diciamolo, la BMG Publishing è una major ma lo è parzialmente, se le stanno dando e se le daranno di santa ragione per un artista che non è andato oltre il disco d’oro, uno che ha provato a fare suo il Festival spacciando per originale costumi e discorsi che una Lady Gaga già affrontava, con in più anche quel piccolo dettaglio chiamato “musica”, circa dieci anni fa, senza riuscire a spaccare il velo di un Morgan che con quattro parole scritte su un foglietto gli ha sostanzialmente vanificato l’operazione, operazione già vanificata dalla mania di protagonista del creativo di Gucci che non è riuscito a rimanere dietro le quinte. Koala che si picchiano senza far uscire una stilla di sangue. Koala per il resto immobili, abbracciati agli alberi.

Peccato solo che questa notizia, un lutto per chiunque abbia amato quel marchio così storico, arrivi proprio il giorno in cui la notizia del presunto addio di Benji e Fede avrebbe potuto portare un po’ di sollievo. Questo è un mondo crudele, cantava una vita fa Cat Stevens. Lo cantava in un album uscito per la Island, quella di Gino con le Mutande, facciamocene una ragione. Evviva i koala.