Oscar 2020, la lezione di Parasite. E dell’Academy

La vittoria come miglior film della pellicola di Bong Joon-ho è destinata a restare un caso eccezionale? Oppure Hollywood e l'Academy stanno cambiando davvero?

Parasite

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Oscar 2020: passati lo shock e la sbornia del trionfo di Parasite – e anche la sbornia che dal palco ha detto di volersi prendere un raggiante Bong Joon-ho –, è il momento di riflettere sul risultato dei 92esimi Academy Awards. Che è giusto definire epocali. Per la prima volta un film straniero ha vinto la statuetta più ambita, miglior film, fino ad oggi chiusa nel recinto delle pellicole in lingua inglese (a voler essere pignoli nel 2012 vinse un film francese, The Artist, però ancora occidentale e che raccontava una storia ambientata a Hollywood).

Parasite e il cinema sudcoreano

Sarà la classica eccezione che conferma la regola o è spia di un cambiamento rilevante nelle politiche dell’Academy e dell’industria cinematografica? Grande merito dell’exploit va ascritto ovviamente al film. Parasite è non solo una pellicola di fattura magistrale, è soprattutto un racconto con al centro un tema universale, la lotta di classe tra ricchi e poveri, e una confezione che è un mix di generi, commedia dramma horror. Fa pensare alla commedia all’italiana, per la capacità di innestare realisticamente il registro drammatico sul comico, o alla commedia sofisticata americana anni Trenta, coi sui racconti adulti e divertenti delle forti disparità della società statunitense dell’epoca.

Parasite parla potenzialmente a tutti in forme narrativamente ed esteticamente identificabili a ogni latitudine. A Bong Joon-ho è riuscita un’opera, diremmo così, di divulgazione che, con le dovute proporzioni, fa pensare a quel che fece Akira Kurosawa negli anni Cinquanta. Il quale rivelò al pubblico occidentale il valore straordinario del cinema giapponese – che contava maestri come Naruse, Ozu, Mizoguchi – grazie a film che mantenevano la propria matrice identitaria, innestandola su racconti di respiro epico e spettacolare (I Sette Samurai), con riferimenti culturali riconoscibili (il pirandellismo di Rashomon, Leone d’Oro nel 1951) e riletture di classici (il Dostoevskij de L’Idiota, lo Shakespeare de Il Trono Di Sangue). Tutte cose appassionanti anche per un pubblico europeo e americano, almeno quello colto.

Jane Fonda annuncia la vittoria di Parasite, miglior film dell’anno

Il successo di Parasite potrebbe arrecare una più ampia visibilità a una cinematografia vivace come quella sudcoreana. In Occidente lo spettatore più raffinato conosce i film d’autore di Kim Ki-duk (che ha vinto il Leone d’Oro nel 2012 con Pietà), Park Chang-wok (quello di Old Boy, Grand Prix a Cannes nel 2004), Lee Chang-dong (il suo Burning l’anno scorso era nelle top ten dei maggiori critici internazionali).

Ma in realtà c’è molto altro: festival (Busan) e politiche governative che incentivano e promuovono nuovi cineasti, e un’industria che sforna film ad alto budget, racconti di genere, film d’autore. Anche attenta al dialogo con le opportunità offerte dai player dello streaming come Netflix. Con cui Bong Joon-ho, infatti, ha distribuito il suo lavoro precedente, Okja, dopo aver girato anche un film in lingua inglese di coproduzione internazionale, Snowpiercer. E i segnali di cambiamento sono incoraggianti: un film pur popolare tra i cinefili come Old Boy negli Usa aveva incassato 700mila euro. Parasite, già prima degli Oscar, era a 35 milioni (e 165 globali).

Una Academy globale per una nuova Hollywood

In tutto questo, cambia anche Hollywood naturalmente, di cui le scelte dell’Academy rappresentano una sorta di riflesso. La vittoria di Parasite, con tutto ciò che può significare in termini culturali e di business, non si sarebbe mai concretizzata senza la mutazione, lenta e non priva di resistenze, dell’industria del cinema statunitense. Un processo necessario, viste le enormi sfide cui Hollywood è sottoposta, dalla concorrenza dello streaming all’esplosione dei nuovi mercati dell’intrattenimento. Come quello, gigantesco, della Cina, che ha un box office nel 2019 a 9,2 miliardi di dollari (in crescita del 5,4%), secondo solo a quello degli Usa a 11,4 miliardi (ma in contrazione del 4%).

È indispensabile aprirsi a un mercato e un pubblico globali. Per far questo bisogna avere un’identità sintonizzata sulla dimensione planetaria. Esattamente quello che sta facendo l’Academy, a partire soprattutto dalla presidenza, tra il 2013 e il 2017 di Cheryl Boone Isaacs, donna e nera. Secondo una ricerca condotta dal Los Angeles Times, nel 2014 i membri dell’Academy, che votano i vincitori dell’Oscar, avevano in media 63 anni, il 76% erano uomini e il 94% bianchi. Con le conseguenze che si possono immaginare, ossia scelte per le statuette che privilegiavano film e candidati che rispecchiassero i loro gusti.

Con la Isaacs è iniziata una politica massiccia di nomina di nuovi membri, continuata dal suo successore John Bailey, maschio e bianco. Una politica che ha magari i limiti di quelle strategie d’emergenza intraprese per affrontare in una sola volta problemi sottovalutati per decenni, con quel sapore un po’ populistico da arruffianamento dell’opinione pubblica. Però, innegabilmente, si è trattato di un intervento corposo. Nel 2015 sono stati nominati 322 nuovi elettori; 683 nel 2016; ben 928 nel 2018, con un consistente incremento del numero di donne e persone di colore.

Oscar: da Green Book a Parasite

Risultato? Gli Oscar del 2019 hanno premiato come miglior film Green Book, una pellicola con quello che Spike Lee chiamerebbe il magical negro, ossia il personaggio di colore che viene in aiuto del protagonista bianco per, in questo caso, aiutarlo a superare i suoi pregiudizi. Green Book veicola un’idea di rispetto per le minoranze irritante, paternalistica e anacronistica. Un film intorno al quale le grandi case di produzione si sono arroccate per evitare il successo di Roma di Alfonso Cuarón, messicano, in bianco e nero e targato Netflix.

Green Book, miglior film degli Oscar 2019: il trionfo del magical negro

Quali sono state le conseguenze? Un’altra infornata di nuovi membri nel luglio 2019, 842, provenienti da 59 paesi, con il 50% di donne e il 29% di persone di colore. E oggi dal suo sito l’Academy mostra orgogliosamente le statistiche di quella che definisce “global membership”, con la rappresentanza femminile al 32% e quella delle persone di colore al 16%, il doppio del 2015. Anche così si spiega Parasite miglior film dell’anno. Per i più critici sarà solo un’operazione d’immagine. In fondo anche quest’anno c’era un solo candidato di colore tra i 16 nominati per le categorie degli attori, Cynthia Erivo. E permane il problema della sottovalutazione delle donne, dato che anche agli Oscar 2020 non c’è stata nemmeno una candidata per la miglior regia.

Su questo tema si potrebbe però obiettare che l’ultima è stata l’edizione degli Academy Award con la più alta percentuale di donne candidate di sempre, il 31%, 65 su 209 nomination totali. E tra le 12 premiate ci sono statuette come quella alla compositrice islandese Hildur Guðnadóttir, prima donna a vincere per la colonna sonora, con Joker. Il che lascia sperare che i tempi, stiano, pur tra inciampi e lungaggini, cambiando per davvero. Così oggi si può guardare con ottimismo al successo di Parasite. Un film sudcoreano che non offre una rappresentazione bonaria e fasulla del suo paese, ma che è invece una storia urticante che parla di lotta di classe e del mondo com’è oggi. Contraddittorio e imperfetto. Ma più inclusivo.