I dati snocciolati da Antonello Soro sono davvero allarmanti: 80 app spia, in media, invadono i nostri smartphone quotidianamente. Non usa mezzi termini il Garante dei dati personali in carica dal 2012 ma pure prossimo alla fine del suo mandato: proprio per questo motivo vengono tirate le somme di quasi un decennio di nuova cultura digitale in cui molte informazioni personali sono sensibilmente messe in pericolo, senza che in molti se ne accorgano.
Le app spia sono tra noi, è inutile negarlo. Con queste non ci si riferisce a quelle che espressamente si dichiarano tali con l’intento di carpire i movimenti e le azioni di partner, lavoratori, figli o quant’altro. Piuttosto, c’è da sottolineare come la stragrande maggioranza di applicazioni appunto, anche quelle più impensabili, richiedono l’accesso a dati sulla posizione: cosa alquanto logica per un servizio, ad esempio, di noleggio di qualche mezzo per le mappe condivise, ma non certo per un app di ricette.
Perché esistono tante app spia sui nostri smartphone? Sfatiamo il mito che queste servano esclusivamente per tracciare i nostri interessi e dunque mostrare solo pubblicità mirate sugli schermi. Di certo il primo obiettivo è certamente questo ma all’alba di un nuovo decennio degli anni 2000, Soro mette in evidenza ben altro: non sono solo i grandi BIG del mondo hi-tech a raccogliere informazioni su di noi ma anche piccole realtà di sviluppatori attraverso tool solo all’apparenza innocui. Proprio in questo universo spesso non regolamentato maturano società che vendono tanti nostri dati anche a paesi volutamente ignari del rispetto della privacy dei cittadini. Dai cosiddetti paradisi fiscali si è passati a veri e propri paradisi dei dati in cui ogni informazione che ci riguarda può essere raccolta per essere venduta al miglior offerente. Il fine, in questi ultimi casi, non è propriamente economico, ma si ricollega ad ampie politiche di controllo delle masse e del loro pensiero, soprattutto in periodi caldi come quelli delle elezioni politiche.
Soro, in un’intervista rilasciata a Repubblica, parla della necessità di creare uno scudo digitale globale in grado di tutelare i dati personali di miliardi di utenti in tutto il mondo. Il GDPR europeo ha compiuto passi da gigante nella tutela degli utenti ma si scontra con il vuoto normativo presente su tali temi in molte altre parti del mondo. Dal canto suo, pure i cittadini che utilizzano smartphone, tablet, smartwatch o qualsiasi altro dispositivo connesso dovrebbero essere ben consapevoli delle autorizzazioni fornite in tutte le app e imparare magari a negarle in caso di servizi non necessari.