L’Ufficiale E La Spia, la ricostruzione del caso Dreyfus di Polanski è una lezione di messinscena

L’ottantaseienne regista polacco firma il suo miglior film recente. Il ritratto della Francia di fine Ottocento è eccellente. E lo stile classico si sottrae al gioco dei facili parallelismi tra la persecuzione del militare ebreo e le traversie giudiziarie del regista

L’Ufficiale E La Spia

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Guardando L’Ufficiale E la Spia è difficile sottrarsi alla tentazione di istituire parallelismi tra il perseguitato militare ebreo Alfred Dreyfus e l’autore del film Roman Polanski. Sono note infatti le sue traversie giudiziarie legate a una condanna per violenza sessuale negli Stati Uniti del 1977 e ad altre accuse, recentissima quella d’una fotografa francese, Valentine Monnier, che ha denunciato uno stupro accaduto nel 1975. Difficile non pensarci quando lo stesso regista, nell’intervista contenuta nel pressbook del film, dice allo scrittore Pascal Bruckner che “in questa storia ritrovo momenti che io stesso ho sperimentato, posso osservare la stessa determinazione nel negare l’evidenza e nel condannarmi per cose che non ho commesso”.

Alla fine però, più delle dichiarazioni conta il film. E L’ufficiale E La Spia, tratto dall’omonimo romanzo di Robert Harris e vincitore del Gran Premio della Giuria alla Mostra di Venezia, si sottrae al gioco delle facili sovrapposizioni. Prima di tutto operando uno spostamento fondamentale. Perché il protagonista non è Dreyfus (Louis Garrel), condannato per alto tradimento nel 1894 e deportato all’Isola del Diavolo. Bensì il colonnello Picquart (Jean Dujardin), suo ex insegnante alla scuola di guerra che, una volta nominato direttore del controspionaggio si rende conto che l’inchiesta aveva preso un clamoroso abbaglio.

Il cuore dell’accusa consisteva in una nota anonima in cui l’ignoto autore si offriva di vendere informazioni militari ai tedeschi. La grafia secondo gli esperti era di Dreyfus. Picquart, non esente da simpatie antisemite, fece però valere il suo senso di giustizia quando scoprì che l’autore del documento era invece un nobile di antico lignaggio oberato da debiti di gioco, il maggiore dell’esercito francese Ferdinand Walsin Esterhazy. Quando ne riferì ai superiori, venne prima rimosso dalla guida dei servizi segreti e spedito in zona di guerra oltreconfine e successivamente posto sotto accusa e condannato nel 1898.

La pubblica dregradazione di Dreyfus ricostruita ne L’Ufficiale E La Spia

L’Ufficiale E La Spia è costruito come un racconto d’altri tempi, che all’emotività legata all’immedesimazione con gli oppressi antepone la cura del ragionamento e la puntigliosità della ricostruzione storica che, dal punto di vista scenografico, è impeccabile. A partire dgli interni, nei quali ogni dettaglio ha la precisione dell’autenticità, richiamata dalla didascalia iniziale che rivendica come tutto ciò che viene mostrato sia “assolutamente vero”. Non riferendosi evidentemente solo ai fatti ma alle atmosfere, gli oggetti, i sentimenti persino. Ed è infatti di un’altra epoca la fedeltà che Dreyfus, pur reclamando a piena voce la sua innocenza, mantiene verso l’istituzione militare che è tutta la sua vita.

I dettagli restituiscono perfettamente lo spaccato storico. E insieme manifestano anche il punto di vista d’autore di Polanski. La sequenza d’apertura è una delle poche da kolossal: una lenta panoramica in campo lungo nella quale a un certo punto l’inquadratura viene occupata dalla massa di militari e gente comune venuta a godersi lo spettacolo della pubblica degradazione di Dreyfus che, dice un convenuto, ha “la faccia del sarto ebreo che piange per l’oro perduto”. La dismisura tra la folla e il piccolo uomo cui vengono strappate le mostrine e spezzata la spada restituisce il senso d’una autentica persecuzione. E la prima volta che Picquart visita gli squallidi uffici del controspionaggio, non può fare a meno di notare l’insopportabile tanfo di fogna. Anche qui il tono è inequivocabile.

L’Ufficiale E La Spia è un meticoloso racconto di fatti e cose, al centro del quale campeggia l’ossessiva burocrazia fatta di schedari, faldoni, documenti – minuscoli pezzi di carta mandati in mille pezzi certosinamente rimessi insieme dalle spie. Quelle testimonianze spesso fallaci, prove falsificate ad arte, decidono del destino degli uomini, insieme alla ragione di Stato e militare che non ammette errori, quell’orgoglio protervo stampato sui volti impagabili degli attori che interpretano i generali, provenienti in gran parte dalla Comédie Française – la ragione principale, probabilmente, per cui Polanski s’è rifiutato di girare il film in inglese, conscio di aver bisogno di quella lingua e di quelle fisionomie.

Il film è una lezione di messinscena tersa, classica, con sequenze avvincenti, come il duello tra Picquart e l’infido maggiore Henry, il quale sostiene che “Noi militari eseguiamo gli ordini, se no non esistiamo”. O la conversazione tra Picquart e un generale che gli rinfaccia il “sentimentalismo” del suo bisogno di giustizia. Una scena che sembra apertamente citare quella assai simile di Orizzonti Di Gloria di Stanley Kubrick, in cui il generale Adolphe Menjou bolla allo stesso modo l’atteggiamento del colonnello Kirk Douglas, disgustato dall’ottusità dei suoi superiori.

La prima pagina dell’Aurore col celebre articolo firmato da Émile Zola

Dreyfus dopo molti anni venne reintegrato, grazie anche alla mobilitazione di intellettuali quali Émile Zola, autore del celebre articolo pubblicato sull’Aurore, intitolato J’Accuse – ogni accusa viene scandita da Polanski mostrando i volti dei militari implicati nel fattaccio. L’invecchiamento in pochi anni dello smagrito Dreyfus restituisce però bene il senso della sua odissea. Così come il dialogo dell’epilogo, anni dopo, tra lui e un Picquart ormai ministro, riconferma la forza impalpabile della ragione di Stato, inaggirabile persino per gli uomini che l’hanno fatta vacillare. Ed è il suggello che Polanski pone a un film che non può terminare con un lieto fine.