Spotify fa con i big della musica come fanno gli allevatori con i cavalli: infilandogli un braccio nel c*lo

Essere fuori dalle playlist di Spotify significa essere fuori dalle classifiche, non esistere. Cari Big alzate la voce e difendete la buona musica!


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Ho una amica, Eleonora, che fa la veterinaria. Noi non abbiamo animali, a parte Scurina, che è un pesce rosso e che quindi immagino non richiederà mai l’intervento di un veterinario, come invece succede con Nadia, che lavora come pediatra e che mi capita di disturbare spesso per uno dei miei quattro figli. Nadia del resto la conosco sin dai tempi delle medie, è una delle mie migliori amiche, avere la scusa di uno dei miei figli con la gola con le placche per sentirla non è mai un dispiacere.
Eleonora, invece, la sento in genere per parlare di musica, perché lei è una cantautrice. Ma non è di questo che voglio parlarvi. Non ho iniziato dicendo: Ho una amica, Eleonora, che fa la cantautrice. Ho iniziato dicendo: Ho una amica, Eleonora, che fa la veterinaria. Credo che in realtà, esattamente come per la faccenda della cantautrice, avrei dovuto dire: Ho una amica, Eleonora, che è una veterinaria, perché se qualcuno mi dice che faccio lo scrittore o il critico musicale, in genere, mi incazzo, e avrete intuito che quando mi incazzo non succede mai niente di buono.

Riparto, allora.

Ho una amica, Eleonora, che è una veterinaria. Siccome legge in genere quello che scrivo, e ha vissuto quindi da lettrice la mia fase “Piero Angela”, quella per intenderci, in cui per parlare di Dediche e manie di Biagio Antonacci tiravo in ballo i cavalli che affogano dal buco del culo, per parlare di Oh, Vita di Jovanotti parlavo delle zebre che si mordono i testicoli e via discorrendo, ogni tanto mi racconta qualcosa di bizzarro, che non essendo un veterinaio non potrei conoscere. Chiaro, molte delle stranezze di cui vi ho parlato in quel periodo, e che saltuariamente tornano a animare i miei pezzi arrivano anche da amorevoli segnalazioni che ricevo sui social da gente che magari neanche conosco, gente che evidentemente incappa in situazioni strane, penso alla merda triangolare del Wombato, ben la ricorderà Eros Ramazzotti, e si sente in dovere di mettermene a conoscenza. La mia gratitudine nei confronti di questi amici sconosciuti è ovviamente tanta. Anche nei confronti di Eleonora, ma nel suo caso mi viene più facile ringraziarla, la chiamo e glielo dico a voce.

Tempo fa mi ha raccontato una cosa che riguarda il suo essere veterinaria, ma più nello specifico il suo essere veterinaria che si è laureata presso la facoltà di Milano, qualcosa quindi che non potrebbe avermi raccontato un qualsiasi mio lettore, magari appassionato di National Geographic. O meglio, me lo avrebbe potuto raccontare un altro veterinario, o studente di veterinaria, di altra facoltà, e nel caso, presumo, a cambiare sarebbe stato solo il nome dell’animale, non la sostanza del racconto, ma a mettermi a conoscenza della storia che sto per raccontare a voi è stata Elonora, quindi è di una veterinaria laureatasi presso la facoltà di Milano qualche anno fa che parlo.

Lì, nella facoltà di veterinaria di Milano, c’era questo gruppo di studenti che frequentavano il suo anno, lei è nata nella metà degli anni Ottanta, per altro il mio stesso giorno, fate un po’ voi i conti di quanti anni fa è successa la cosa che vi sto raccontando. In realtà ancora una volta sono stato impreciso, ma questo mio scrivere seguendo un flusso mi impedisce di tornare indietro e correggere (in realtà è che sono pigro, e mi sta sul caxxo tornare indietro a correggere, ma voi fate finta di credere a quello che credo, o più semplicemente assecondatemi bonariamente). Sono stato impreciso perché la storia che sto per raccontarvi non è successa, come ho scritto, perché questo lascerebbe intendere che a un certo punto è accaduto qualcosa, un evento. No, qui si tratta di qualcosa che si è perpetrato nel tempo, e chiedo scusa a tutti voi se ho usato una parola di merda come perpetrato, oggettivamente cacofonica e brutta anche alla sola lettura a mente, ma sempre per quella pigrizia di cui sopra ho ritenuto che la cacofonia e bruttura messa lì, tra le righe, non fosse tale da spingermi a cercarne una migliore, converrete con me che ho fatto bene. Comunque, tornando a noi, qui si tratta di una storia che è andata avanti nel tempo (cazzo, visto quanto ci voleva poco, maledetta pigrizia), una storia che, fossi uno di quelli che si professano convintamente animalisti, magari anche perché lo sono, non voglio metterlo in dubbio anche se nello scrivere la frase sopra in qualche modo l’ho appena fatto, amen, o fossi addirittura uno di quelli che abbracciano pure gli alberi, e non come l’encomiabile Giuditta Sin, vi invito a andare a vedere le sue storie su Instagram, converrete con me che c’è modo e modo di abbracciare gli alberi e professarsi in sintonia col mondo, ma così, per dimostrare che loro, gli abbracciatori di alberi e amanti degli animali, sono meglio di noi che, per dire, stasera mangeremo agnello fritto per festeggiare un qualche compleanno in famiglia.

Cazzo. Mi sto perdendo in chiacchiere. Qui ho una storia importante da raccontare.

Elenora, dicevo. La mia amica veterinaria Eleonora ha frequentato la facoltà di Milano qualche anno fa. La sua classe, nel senso gli studenti del suo stesso anno, era composta da circa centoventi persone, mi ha detto. Non ho elementi per dubitarne, anche se pure lei come me è del 2 giungo, quindi tende a imbellettare i racconti, infarcendoli di dettagli che spesso puntano a strappare la risata, per altro riuscendoci con successo, sia lei che io, ammettetelo.

Ci sono quindi questi centoventi studenti, coetanei della mia amica veterinaria Eleonora, che ai tempi narrati non è ancora veterinaria, altrimenti non sarebbe una studentessa parte di una classe di circa centoventi studenti. Pleonasmi, certo, ma in questo tempo di frammentazione e di analfabetismo funzionale è sempre meglio specificare, e non sto certo parlando di voi che siete arrivati fin qui.

C’è una ancora giovane Eleonora (lei è giovane anche oggi, ma va bene, non state a fare i pignoli) con altri centoventi studenti di veterinaria, studente più studente meno. Sono lì presso la loro facoltà che studiano e fanno pratica, perché la veterinaria, come la medicina e altre facoltà scientifiche, è certo fatta di tanto studio, ma anche di pratica, perché poi la teoria appresa tocca applicarla. Funziona così nelle facoltà scientifiche, almeno in molte, meno in quelle umanistiche, e in effetti se avete avuto a che fare con certi laureati in queste ultime vi sarete posti, io l’ho fatto, anche se ancora una volta sto generalizzando, perché mai uno possa aver conseguito una certa facoltà, che so?, Lettere, e non essere in grado di scrivere una frase di senso compiuto, ma passiamo oltre. Loro, Eleonora, ancora giovanissima, e gli altri studenti, stanno lì che fanno questa facoltà, Veterinaria, e frequentano lezioni e laboratori. Lì, nella facoltà, questa la triste storia che voglio esporvi, e nel dire triste, sappiatelo, per un momento mi sono anche io esposto come fossi uno di quelli che abbracciano gli alberi e non festeggiano certi compleanni mangiando agnello fritto, come per dire farò io questa sera, solo che uno di quelli che abbracciano alberi vestiti, quindi, per intendersi, in maniera molto meno charmant e efficace della su citata Giuditta Sin, immagino che nel mentre siate andati a cercarla e sappiate di cosa sto parlando. La triste storia che sto per raccontarvi, sempre che non abbia già iniziato circa settemila battute fa, è quella di Fronton. Voi vi chiederete, a ragione, chi caxxo è Fronton?

Ecco, Fronton è un cavallo. Un cavallo piuttosto mansueto. Certo, siamo sempre lì, ora starete tutti a dirmi, ma i cavalli sono sempre animali mansueti, sono buoni, pensa all’ippoterapia. Tutto vero. Ma se si dice “Tizio è matto come un cavallo”, caxxo, ci sarà un qualche motivo, no? Saranno pure mansueti, i cavalli, non ho elementi per dire il contrario, ma qualche sintomo di follia deve pure dimostrarlo. In realtà un elemento a supporto della mia tesi ce l’avrei pure, anzi ce l’ho. E se siete arrivati fin qui, immagino, non vi sorprenderete affatto ora che ve lo espongo nel dettaglio.

Esattamente venti anni fa sono stato in Chiapas con mia moglie Marina. Mia moglie, Marina, era tale, cioè mia moglie, esattamente da cinque giorni, visto che, dopo una tappa a Cancun, piuttosto rilassante seppur non eccessivamente originale, da lì iniziava il nostro vero e proprio viaggio di nozze. Non è ovviamente il mio viaggio di nozze oggetto di questo mio racconto, si parla di cavalli e della loro presunta mansuetudine.

Siamo a San Cristobal de Las Casas, all’epoca ancora la patria del Subcomandante Marcos, solo in quei giorni di nuovo praticabile per turisti non troppo pavidi. Dopo aver fatto alcune escursioni piuttosto in linea con la categoria di cui non facciamo parte, cioè i pavidi, roba bella da raccontare, molto bella, ma nella norma, io e Marina decidiamo di fare una passeggiata a cavallo da San Cristobal fino a San Juan de Chamula, paese che le guide indicano tutte come “impedibile”, per altro a ragione. Al Santa Clara, il nostro albergo, ci offrono la possibilità questa passeggiata a cavallo, e nonostante né io né Marina siamo mai andati a cavallo, accettiamo di buon grado. Ci viene a prendere il solito colectivo e partiamo per questo che, sempre le guide, dicono sia uno dei paesi più ancorati alle tradizioni della zona.

Mentre ci allontaniamo dal centro mi accorgo di quanto in realtà San Cristobal de Las Casas sia esteso. È davvero grande, molto più di quanto non sembrasse visto dal colle di Guadalupe o dal suo dirimpettaio colle del San Cristobal. Forse il fatto che tutte le case siano basse nascondeva allo sguardo parte della periferia, penso, come se la linea dell’orizzonte fosse in qualche modo facilitata dall’altezza.  Comincio a chiedermi quanto vasta sia, questa periferia, quando in realtà il colectivo si ferma e l’autista ci invita a scendere. A parte me e Marina, gli altri della comitiva sono tutti messicani. Fossi ricco penserei a un rapimento, ma non mi sembra proprio possibile, non ho il physique du role del ricco. Siamo circa a un paio di chilometri dal centro, in una zona fatta sempre di case basse ma tutte bianche. Bianche e un po’ diroccate, in tutti i casi molto brutte. Vedo che il capogruppo, quello che sarà la nostra guida si dirige verso un cortile, e così, in balia del nostro destino lo seguiamo. Entriamo nel cortile. Il mio destino mi si presenta sotto le nere spoglie di un gigantesco cavallo maschio. Siamo in un maneggio, se si vuole essere molto indulgenti. Ci eravamo sbagliati, capiamo, oggi non faremo una gita a San Juan Chamula e una passeggiata a cavallo. Oggi faremo una gita a cavallo fino a San Juan Chamula.

Non ci vorrà molto, ci spiega la guida, sono solo un paio d’ore di marcia. Io non sono mai andato a cavallo, ma ho un’idea vaga di quello che, da noi in occidente, è l’equipaggiamento per andare a cavallo. Addosso al mio nero destriero non ne vedo traccia. Non vedo una sella di quelle da film western, di pelle. Non vedo le staffe in cui infilare i piedi. Vedo solo un panno di stoffa messicana appoggiata al dorso del cavallo e le briglie, fatte di corda grezza. Salto su, aiutato dalla guida, e imparo un’altra dura lezione: mai andare a cavallo con i calzoni corti. Marina sale sul suo cavallo, con lo stesso tipo di corredo. Cavallo che si dimostra irrequieto. Al che urla, costringendo un ragazzino a aiutarla a scendere, e da quel momento la sua gita proseguirà così, a piedi, col ragazzino costretto a tirare il cavallo come fosse un carrello per la spesa. Partiamo, Lo confesso, il tutto mi sembra meno duro del previsto. Anzi, ha un che di eccitante. Anche perché la periferia di San Cristobal, nella sua bruttezza e nel suo squallore, ha un che di affascinante. Ci sono case che, man mano che si esce dal paese, sono sempre più rotte e rattoppate. Quello che sembra cemento lascia sempre più spesso il posto a travi di legno marcio e lamiere. Ma non c’è una di queste stamberghe che non abbia la parabola del satellite sopra le lamiere che costituiscono la stragrande maggioranza dei tetti. Per strada poi, sempre che si possa chiamare strada questa striscia di sassi su cui ci si muove, ci sono i soliti bambini, perché il Messico è sempre pieno di bambini che se ne stanno in strada, stavolta mezzi nudi che, invece che chiedere soldini, il Messico è pieno di bambini in strada che chiedono soldini, giocano con cuccioli di maiale, cavalcandoli come fossero dei pony. E poi ci siamo noi, a cavallo, tutti tranne Marina, a piedi, che ci stiamo dirigendo a San Juan Chamula. In realtà il viaggio sarà molto più tragico di come la partenza lasciava presagire. Fatto poco più di un chilometro la guida lascerà la strada sterrata per cominciare letteralmente la rampicata verso la nostra meta. I cavalli, evidentemente abituati a questa “passeggiata” si arrampicheranno per le montagne manco fossero stambecchi. Sempre ordinatamente in fila indiana. Tutti ordinatamente in fila indiana tranne il mio, il cavallo nero. Appena abbandonata la strada principale il mio destriero darà i primi segni dei suoi disturbi mentali, che poi è il motivo per cui vi sto raccontando questo aneddoto.

In poche parole comincerà a staccarsi dal resto del gruppo per seguire un percorso tutto suo, mentale e non. Un percorso che, alla fine, mi porterà a San Juan Chamula, ma in condizioni fisiche e psicologiche non proprio ottimali. Sarò costretto a schivare decine e decine di rami, mentre il cavallo salterà da una roccia all’altra in mezzo agli alberi, manco fosse uno stambecco, mia moglie, in colonna con gli altri, a vedersi già vedova ancora prima di aver potuto esibire la fede in ufficio. Molti di questi rami, ovviamente, non li schiverò, per cui il mio volto comincerà a rigarsi di sangue, con conseguente stuolo di insetti che mi attaccheranno voracemente. Sarà in questo momento che capirò cosa significa che il Chiapas ha la più grande varietà biologica del Nord America. Buona parte di questa varietà biologica avrà pasteggiato col mio sangue. Quando infine usciremo dalla selva per ricongiungerci al gruppo, in una zona pianeggiante, quando in pratica per la prima volta vedrò la possibilità di sopravvivere a questa passeggiata come qualcosa di verosimile, il mio cavallo darà il meglio di sé. Non contento di aver saltato per circa due ore come un cerbiatto in acido, il mio compagno nero comincerà a correre, a galoppare, si dice tecnicamente. Io, in preda a un ultimo barlume di spirito di conservazione, tirerò le briglie facendo mordere al cavallo quello che, mi augurerò a ragione, si chiama il freno. Il mio cavallo si fermerà, almeno per un attimo, poi riprenderà la sua corsa. Questo rituale si ripeterà quattro volte, dopo di che, il mio cavallo inferocito dal mio tentativo di bloccarne il galoppo scatterà come un centometrista, evidentemente irritato dai miei tentativi di governarlo, e mi costringerà a vivere una delle esperienze più traumatizzanti della mia allora giovane esistenza.

Circa mezzo chilometro fatto al galoppo di un cavallo nero, senza sella e senza staffe. Neanche fossi un indiano.

Quando infine riuscirò a mettere piede a terra, in preda all’adrenalina, la guida mi spiegherà che mi ha affidato il cavallo nero perché sono l’unico uomo del gruppo, cosa rispondente al vero. Sono l’unico uomo, e anche l’unico a non essere mai andato a cavallo prima d’ora, ma vaglielo a spiegare al messicano. Poi mi dirà una frase che non ha bisogno di traduzione: “es un caballo loco”.

Ora, l’aver affermato che quello era un caballo loco, cioè un cavallo matto, potrebbe indurre qualcuno a controbattere alla mia tesi, e cioè portarlo a affermare che i cavalli sono in effetti animali mansueti, ma se quel qualcuno ha il coraggio di farlo dopo questo mio racconto sappia che si troverà di fronte uno che è sopravvissuto a tutto quello e che ama assai poco essere contraddetto.

Fronton, dicevamo, parecchie righe fa. Fronton è, o meglio, era questo cavallo piuttosto mansueto che si trovava a suo modo e senza immagino aver avuto nessuna voce capitolo a riguardo a collaborare con la facoltà di Veterinaria di Milano. Dico questo ben consapevole che c’è gente che è usa comportarsi volontariamente come Fronton si è trovato a comportarsi, a breve capirete. Qualcuno che lo fa anche pagando a caro prezzo. Ma siccome in genere nessuno poi lo va a raccontare in giro, posso azzardare che quel che è successo a Fronton, è successo a lungo e ripetutamente a Fronton, non rientri esattamente nella norma.

Perché il compito che Fronton ha affrontato con abnegazione coi centoventi studenti di Veterinaria di Milano, la mia amica Eleonora compresa, in quegli anni di cui vi sto raccontando, è stato quello di cavia.

No, non è vero. Ho mentito, sapendo di mentire. O meglio, ho usato la parola sbagliata, sapendo di farlo.

Fronton non ha fatto la cavia, nessuno ha compiuto esperimenti su di lui. È stato più un volontario sul quale si sono esercitati i centoventi studenti, Eleonora compresa. Intendiamoci, la parola volontario, nel caso specifico, va presa metaforicamente, perché nulla di volontario c’è stato. Ma ci siamo capiti. I centoventi studenti dovevano esercitarsi, e Fronton era lì tutti i giorni per permetter loro di farlo.In cosa consisteva esattamente l’esercitazione di cui sopra?

Semplice. Dovete sapere che buona parte dei problemi di salute dei cavalli riguardano l’addome. Senza dover tornare a parlarvi di affogamenti e altre amenità, vi basti sapere questo. Se un cavallo sta male, cioè se non si è rotto una gamba per la quale poi gli devono sparare, come abbiamo imparato da bambini guardando i film di John Wayne, novanta volte su cento c’è di mezzo l’addome. Problemi che, non essendo io uno di quei centoventi studenti, né uno di altri gruppi di studenti, non essendo cioè un veterinario, non so spiegare nello specifico. Eleonora mi ha detto così, lei è veterinaria, mi fido.

Come si controlla lo stato dell’addome del cavallo? Gli si infila un braccio nel culo.

Sempre di buchi di culo di cavallo si parla, penserà qualcuno. Esatto, rispondo io. Quindi c’è Fronton lì, al dipartimento, bello mansueto, e ci sono questi centoventi studenti, Eleonora compresa, che ogni giorno gli infilano un braccio nel culo, per capire se ci sono problemi all’addome. “Anche lo stato dell’aorta si controlla dal c*lo”, mi ha detto Eleonora. Usando esattamente queste parole, tanto perché non pensiate che in questa storia sono solo io quello a usare un linguaggio scurrile. Fronton, quindi.Il cavallo mansueto. Provate a mettervi nei suoi panni, metaforici, visto che i cavalli non indossano panni. Pensateci.

Centoventi persone che ogni giorno vi ficcano un braccio su per il c*lo. Per sapere se state bene, certo, ma sempre di un braccio nel culo si tratta. Tutti i giorni. Sabato e domenica escluse, almeno quelle. Fanno seicento braccia alla settimana. Non sono scherzi.Ora, è evidente che io non mi occupi di animali. E che non sia uno di quelli che abbracciano alberi. Perché ci hai parlato di Fronton, quindi, si chiederà il solito cagacazzi? Semplice. Sono almeno due anni che sostengo con tutte le mie forze che Spotify sta facendo il bello e cattivo tempo, con la FIMI che le ha anche permesso di rendere quel bello e cattivo tempo il mercato tutto. Loro decidono in che playlist passi, si veda il caso di Coez, letteralmente benedetto da Spotify, o il recente caso di Emma, da Spotify ignorata, fatto che ha scatenato l’ira dei fan della Marrone, “a c*lo tutto il resto” (cit.). Se non sei nelle Playlist non esisti, e se non esisti su Spotify non finisci alto in classifica, e se non finisci alto in classifica non esisti. Scompari. Ti estingui.

Lo dico da due anni, sentendomi dare del pazzo, come il cavallo nero di cui sopra, il caballo loco.Tutti i miei colleghi muti, come i vigili davanti a Pino dei Palazzi che fa nel penne col motorino. In questi giorni stanno però uscendo tutti i Big della nostra discografia, da Zucchero a Tiziano Ferro, passando per Gianna Nannini, Mina e Ivano Fossati, Cesare Cremonini, Jovanotti e il povero Biagio Antonacci, senza dimenticare Vasco. Tutti pronti a andare sul mercato, con la consapevolezza che potrebbe arrivare Stocaxxo qualsiasi a superarli in classifica, magari con un album costato un centesimo del loro. Non solo, se la FIMI continua a regalare certificazioni basate solo sullo streaming, cioè sul nulla, questo accade oggi, presto ci sarà un Ghali che potrebbe avere più Dischi di Platino di un Eros Ramazzotti, Capo Plaza che mangia in testa alla Pausini, e tanti saluti a tutti. Metaforizzando, oggi ci sono tutti i Big della nostra canzone che potrebbero, vedi Fronton, trovarsi un braccio infilato nel culo da ragazzetti ancora alle prime armi, Spotify nei panni del rettore di facoltà, uno che dovrebbe avere a cuore il benessere degli animali/cantanti, ma che finisce per fargli infilare un braccio nel culo tutti i giorni. A questo punto la domanda sembra lecita: cari Big ma a voi quel braccio nel culo piace o forse è il caso di fare cartello, alzare la voce e provare a cambiare le cose?

#IoStoConFronton, poi fate voi.