JFK – Un Caso Ancora Aperto, l’attacco al sogno americano di Oliver Stone

Alle 21.15 su La7 c’è il film che racconta il processo istruito dal procuratore Jim Garrison sull'omicidio Kennedy. Una requisitoria tendenziosa. E un esempio di cinema alla Oliver Stone, vitale e arrischiato

JFK

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Al titolo originale, secco, JFK, in Italia fu aggiunto un più enfatico Un Caso Ancora Aperto. Che però, a pensarci bene, ha una sua efficacia descrittiva visto che, a oltre cinquant’anni di distanza dall’assassinio del presidente Kennedy (22 novembre 1963) e a quasi trenta dall’uscita del film di Oliver Stone (del 1991), ancora oggi buona parte degli americani – lo prova una ricerca Gallup – non crede al killer solitario Lee Oswald e propende per l’idea del complotto.

Cos’è stato l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy? “È un mistero! Un mistero avvolto in un rebus dentro un enigma”, dice David Ferrie (interpretato da Joe Pesci), uno dei testimoni chiave – almeno secondo Stone – dell’indagine condotta dal procuratore di New Orleans Jim Garrison (Kevin Costner) per riaprire il caso. È anche molto più di questo: è una sorta di rottura pubblica dell’innocenza americana, il momento in cui il paese si scopre imperfetto e percepisce il dolore della perdita del padre e, insieme, sente crescere la sfiducia verso quei valori fondativi nei quali ha sempre creduto. Infatti Stone fa dire a Garrison, nell’arringa finale, che dopo la morte del presidente Kennedy “siamo tutti Amleti in questo paese, figli di un padre-padrone assassinato, i cui assassini siedono ancora sul trono”, con una foga tra lo shakespeariano, lo psicoanalitico e il fantapolitico.

Oliver Stone sceglie di affondare dentro l’enigma, non per risolverlo ma per instillare dubbi e incrinare le certezze dei risultati della Commissione Warren, che avevano posto una pietra tombale, semplificatoria, sul caso. In un certo senso, come scrisse in un’analisi molto critica il giornalista investigativo Edward Jay Epstein, che smontava il film dal punto di vista fattuale, “JFK di Oliver Stone rappresenta il ritorno di Jim Garrison”.

Il vero Jim Garrison, che nel film ironicamente interpreta Earl Warren

Stone disseppellisce, oltre vent’anni dopo il processo, tutte le perplessità – forse anche le paranoie – che avevano spinto il procuratore a tornare sulla questione, alla ricerca della cospirazione nascosta oltre l’immagine del capro espiatorio Oswald. Il processo intentato da Garrison voleva dimostrare la colpevolezza di Clay Shaw (Tommy Lee Jones), imprenditore e agente della Cia, accusandolo di cospirazione e così collegandolo a un più ampio complotto nel quale erano coinvolti esuli cubani, servizi segreti, la mafia e livelli ancora più alti della politica. Il processo in realtà si risolse in un fallimento, “uno dei più disgraziati capitoli della storia della giurisprudenza americana”, scrisse il New York Times, anche perché il testimone chiave era un tizio che aveva ammesso di ricordare qualcosa solo dopo l’uso di una sorta di siero della verità e uno stato di ipnotismo indotto.

Stone quindi riscrive tendenziosamente la storia, partendo dai libri dello stesso Garrison, Sulle Tracce Degli Assassini e di Jim Marrs, Fuoco Incrociato: Il Complotto Che Ha Ucciso Kennedy. Per denunciare le manipolazioni della Commissione Warren manipola a sua volta i fatti, approfittando della licenza d’autore per spingere nella direzione di quella che lui reputa la verità. Il testimone David Ferrie, che nel film si autodenuncia e ammette di aver lavorato per la Cia, nella realtà continuò a proclamarsi innocente. E il personaggio che costituisce il cuore accusatorio del film, mister X (Donald Sutherland), un ex militare addetto alle operazioni speciali che fornisce a Garrison tutti i tasselli fondamentali per ricostruire la cospirazione, in verità era solo parzialmente esemplato sul colonnello Prouty, che aveva lavorato sì al Pentagono, ma senza mai ricoprire un ruolo machiavellico di quella importanza.

Oliver Stone usa disinvoltamente i dati a sua disposizione. Il giudizio dello storico, quindi, non può che essere negativo. Però, aggiungendo falsificazione a falsificazione, dal punto di vista cinematografico crea un oggetto entusiasmante, in cui la retorica sposa un senso d’indignazione genuino che ha come obiettivo quello di incrinare il consenso acquiescente. E lo fa impiegando al meglio il linguaggio del cinema: affastellando voci, suoni, volti, immagini di diversa provenienza, con un montaggio febbrile che crea un senso di urgenza, incollando alla poltrona lo spettatore cui, per tre ore, non viene offerto un momento di tregua, subissato di dati, tracce e sospetti.

In JFK è impossibile separare i materiali d’archivio dalle sequenze girate da Stone. Le immagini posseggono la stessa grana, così anche le ricostruzioni – e le illazioni – del regista acquistano l’evidenza del documento. Quando David Ferrie muore, Garrison parla con il medico della scientifica che gli spiega la dinamica del suicidio. Nel frattempo sullo schermo scorrono le immagini in bianco e nero, come fossero tirate fuori da un archivio, dell’omicidio dell’uomo. Sono il parto dei sospetti del procuratore, ma il film li espone con l’evidenza del dato di fatto inoppugnabile. La testimonianza di Lee Oswald (Gary Oldman) la si osserva da una televisione, quasi si trattasse d’un pezzo di cronaca ripescato da un vecchio telegiornale. Non ricostruzione di finzione, ma realtà pura e semplice. O meglio, l’una e l’altra mescolate e sovrapposte, senza che sia più possibile vedere il punto di cucitura.

Siamo dall’altra parte dello specchio, il bianco è nero e il nero è bianco”, dice Garrison in JFK. Stone prende alla lettera questa affermazione e aggrega elementi diversi, impiegandoli molto liberamente. Per questo Jim Garrison ha il volto di Kevin Costner: che sembra ancora circonfuso dell’aura di onestà integrale dell’Elliot Ness che aveva interpretato pochi anni prima ne Gli Intoccabili, il poliziotto che mandò in galera Al Capone. È l’americano onesto ispirato solo dal senso di giustizia. Qualcosa a metà tra la rettitudine trasparente di Gary Cooper e la lealtà quasi ingenua di James Stewart.

Esattamente come il boy Scout Mister Smith/Stewart nel vecchio capolavoro morale di Frank Capra, Garrison va in pellegrinaggio a Washington sotto la statua di Lincoln, nume tutelare della giustizia e dell’incorruttibilità americana. Il procuratore in fondo è un uomo tranquillo che ha sempre creduto agli ideali del suo paese. Ma come mister Smith, una volta eletto in parlamento, capisce come funzionano davvero le cose in politica, così lui, con l’assassinio Kennedy, si ridesta dal suo sogno americano e assapora l’incubo. Entrambi decidono di reagire. Quel che fa anche Oliver Stone col suo cinema disinvolto, tendenzioso, anche censurabile. Però mai così vitale come in JFK.