Crescendo certe dinamiche cambiano. Non dico niente di nuovo, non è mia ambizione farlo. Parto da un punto fermo, proprio perché voglio provare a accompagnarvi in un discorso, quello sì, che potrebbe essere interessante, che ritengo interessante. E per farlo parto da qui, dal fatto che crescendo certe dinamiche cambiano.
Quando siamo giovani, non giovanissimi, magari, ma adolescenti e post-adolescenti, guardiamo al mondo degli adulti certamente con ammirazione, provando a prendere a esempio coloro che riteniamo meritevoli, ma anche con la malcelata volontà di “uccidere i padri”. Fermi tutti, non intendo necessariamente i nostri padri biologici, è un modo di dire, e ovviamente quando si parla di “uccidere” si va per metafore, non sto certo parlando di tentati omicidi. Il fatto è che, per conquistare il nostro posto nel mondo, non son certo io a stabilirlo, dobbiamo farci largo e spesso nel farci largo la cosa che ci viene più spontanea è far fuori chi ci sta sopra, chi ci ha fino a quel momento influenzato, direttamente o indirettamente, chi ci ha anche protetto. Uccidere i padri, appunto. Non è certo mia intenzione affrontare qui la tematica degli scontri generazionali, raccontare di come, giovane liceale, cominciai a farmi crescere i cappelli, diventando quello che, in fondo, sono ancora oggi. Ognuno di noi, di voi, ha vissuto qualcosa di simile, con buone probabilità, e ognuno presumibilmente ha preso traiettorie personali a un canone piuttosto diffuso.
Quello che però mi sembra interessante, per l’argomento che intendo affrontare oggi, non è tanto il momento in cui si uccide o cerca di ucciedere i padri, quello in cui si pratica la ribellione, si accende lo spirito rivoluzionario, e la rivoluzione, è noto, si nutre di sangue, ma quello che succede, in genere, parecchi anni dopo. Se infatti, parlo per me, allo scoccare del diciottesimo anno di età ho smesso di andare in montagna coi miei, nato in una città di mare, Ancona, i miei erano soliti e lo sono stati fino a pochi anni fa, andare a passare un paio di settimane di vacanze sulle Dolomiti, spesso nei medesimi posti, Vigo di Fassa, Ziano di Fiemme, per poter fare passeggiate a loro care, e a me del tutto incomprensibili, passeggiate che ho smesso di fare allo scoccare del diciottesimo anno di età, anno in cui ho rinunciato alla vacanza di famiglia, a quel punto di coppia, visto che ero e sono il minore dei miei fratelli, già da tempo allontanatisi da quella consuetudine familiare, se quindi, parlo per me, allo scoccare del diciottesimo anno di età ho smesso di andare in montagna coi miei è anche vero che, superati i trenta, quando ormai vivevo con colei che nel mentre era diventata mia moglie, forse già con la prima dei miei quattro figli, Lucia, l’idea di passare qualche giorno in montagna coi miei ha cominciato a assumere tutta un’altra sfumatura. Era successo così anche con la musica classica, del resto, ve l’ho già raccontato. Iscritto piccolissimo a un corso conservatoriale di violoncello, costretto, non certo con violenza ma con quella fermezza che agli occhi di un bambino non lascia spazio al diniego, a assistere ogni domenica pomeriggio ai concerti che si tenevano nell’auditorium del Liceo Rinaldini, il liceo classico della mia città, ho in maniera radicale messo una chitarra elettrica tra me e qualsiasi cosa avesse a che fare con quello che ai miei occhi appariva come passato, roba da conservare, appunto, in un conservatorio, salvo poi tornare a studiarla, in maniera stavolta solo teorica, da adulto, quando cioè il furore giovanile si era non tanto assopito, non vi sarà sfuggito che un certo spirito punk alberga ancora in me, ma quantomeno era stato metabolizzato, diventato gestibile.
Questo mio guardare con nostalgia alle vacanze coi miei, ormai anziani, in fondo, è qualcosa di tanto scontato e banale, quanto rassicurante. Perché i miei ci sono ancora, e non sempre la vita concede queste chance, e perché evidentemente ci sono rapporti che consentono di guardare a questa ipotesi, in realtà emarginata nel contesto del “sarebbe bello”, anche questo non necessariamente da dare per scontato.
Succede così, credo, nella vita. Si cresce, si matura, si guarda a quello che da giovani si è cercato di soffocare, di togliere di mezzo, di bruciare con un po’ meno radicalità. Ci si riconosce, a volte, non sempre, eh, in quelli che da giovani individuavamo come i difetti dei nostri genitori, dei nostri padri, ripeto, non necessariamente di genitori genitori sto parlando, potrebbe essere un maestro, un maestro di vita, chi vi pare, e si pensa a una sorta di conciliazione col passato, come di chi, magari per nostalgia, non lo escludo, magari semplicemente perché nel mentre di dare fuoco al mondo non ha più voglia o necessità, ha deciso che è arrivato il momento degli abbracci.
Bene. Questa era la solita lunga premessa, cui immagino siate abituati, forse assuefatti, ma tant’è.
Ho fatto breve, brevissimo cenno, in questo lungo preambolo, che preambolo in realtà non è, affatto, alla questione del conservatorio, del violoncello e della chitarra elettrica. Ne ho già parlato, lo riassumo in due righe per chi non avesse letto, o se ne fosse legittimamente dimenticato.
Il mio bisnonno era un direttore d’orchestra, o qualcosa di simile. La mia famiglia materna, quindi, è sempre stata dentro la musica classica. Il che si è palesato, nella generazione mia e dei miei cugini, quasi tutti più grandi, visto che io sono l’ultimo figlio di mia madre, a sua volta la settima di otto tra sorelle e fratelli, in una sorta di iscrizione di massa alla scuola di musica di Ancona, l’Istituto Pergolesi, ai tempi affiliato al Conservatorio Rossini di Pesaro. Di questa iscrizione di massa, va detto, poco o nessuna traccia è rimasta. Probabilmente, anzi, sicuramente, la sola traccia è la mia, che di musica mi occupo per lavoro, ma per il resto c’è stata mia sorella Caterina, diplomata al Conservatorio in oboe, diploma poi non messo a frutto, perché mia sorella non suona credo dalla settimana dopo aver conseguito detto diploma, e, credo, un diploma in violino di mio cugino Giovanni, che però nella vita fa l’ingegnere nelle piattoforme petrolifere in giro per il mondo. Comunque, nel mio caso, arrivato alle medie, quando a tutti era diventato evidente che suonare il violoncello e giocare a calcio era qualcosa di impossibile, perché il calcio prevedeva farsi spesso male, mentre il violencello pretendeva una sorta di culto delle articolazioni, mollai la classica per il pallone, non certo con qualche dolore materno e un certo godimento personale. Questo a grandi linee. Il seguito della storia, neanche troppo lontano dal giorno in cui mi incamminai, finalmente libero, a giocare una partita di calcio al campetto del Pincio, fu un mio repentino riavvicinarmi alla musica, stavolta da autodidatta, la chitarra come strumento principale, ma senza disdegnare basso, tastiere e qualsiasi strumento emettesse suoni. Ovviamente, dopo aver approcciato inizialmente la chitarra classica che avevo in casa, prima di mio fratello Marco, fu la volta di una elettrica, comprata coi miei alla Eko, in una delle tante chiusure dell’azienda con conseguente svendita a prezzi stracciati degli strumenti presenti in magazzino. Una imitazione della Fender Stratocaster dal nome Melody Vintage, cui mi affrettai a cambiare i pick-up, ma che continuò sempre a suonare come una imitazione della Fender. Con quella suonai per anni in band locali, fino al mio approdo negli Epicentro, band la cui storia raccontai nel libro Anime @ Losanghe, nei prossimi giorni di nuovo in libreria in un tomo antologico che vede quel romanzo insieme agli altri due che raccontavano i miei anni Novanta, Questa Volta Il Fuoco e Una Notte Lunga Abbastanza, tomo dal titolo dichiaratamente nannibalestriniano Avrei Voluto Tutto. Oltre la chitarra, va detto, comprai anche un effetto, l’Overdrive, un distorsore piuttosto classico, e un altrettanto classico wah-wah, tanto per rendere omaggio ai padri del rock. Perché era il rock che volevo fare, come risposta alla classica. E dopo il rock, ulteriore allontanamento da quei suoni così precisi, il punk, per fare il quale mi autoimposi di disimparare a suonare, scordarmi le scale, mettere da parte gli studi di armonia e composizione, insomma, diventare selvaggio, come cantavano gli Steppenwolf suppergiù quando nacqui io.
Così doveva andare il mondo, dovevo uccidere il padre, e il padre, per me che venivo dallo studio del violoncello all’Istituto Pergolesi di Ancona, quindi dovevo diventare un fiammeggiante punk rocker, sulla scia degli Alice Donut, dei Dead Kennedys, volendo dei miei adorati Hüsker Dü.
Per questo, anche per questo, io che avevo studiato violoncello, e che avevo da sempre avuto un pianoforte a casa, usato da mia sorella per studiare composizione al Conservatorio, ma lì a mia disposizione per muovere le mani, per provare a capire, per studiare, per questo, quindi, la chitarra elettrica divenne il mio strumento. Al punto che, piuttosto bravo a cantare, intonato, mai calante, e con diverse esperienze di band alle spalle, negli Epicentro, la band messa su coi miei compari di piazza Cavour, Roberto, Emanuele e Michele, mi incaricai di suonare le chitarre, solo e soltanto di suonare. E di scrivere musica, ovviamente. Volevo essere un chitarrista, suonare solo chitarre rock.
Poi gli Epicentro sono finiti. Si sono sciolti come una medusa al sole durante una calda serata estiva, a Martinsicuro, alla semifinale del concorso Anagrumba, presidente di giuria un incredulo Mimmo Locasciulli, io ho cominciato a scrivere, non più canzoni ma parole, racconti, romanzi, articoli, e il resto si è dipanato da sé. E in questo suo dipanarsi, non poteva e doveva che essere così, la chitarra elettrica, distorta dal mio Overdrive, spesso volutamente scordata, ha lasciato posto a una chitarra acustica. Perché non c’era più nessun padre da uccidere, avevo fatto pace con il passato, mi ero risolto e avevo risolto tutti i conflitti.
Tutto questo è successo, in maniera assai più eclatante e macroscopica anche a chi il rock lo suonava davvero, non ai concorsi presieduti da Mimmo Locasciulli, ma nei dischi e nelle grandi arene.
Non che i rocker, quelli veri, avessero del tutto rinunciato all’acustico, intendiamoci, non credo sia necessario star qui a fare esempi che risulterebbero sicuramente inutili e ridondanti, ma c’è stato un momento, appena prima i fatti di cui vi ho parlato, che per intendersi si sono svolti a metà degli anni Novanta, in cui il rock ha letteralmente staccato la spina. Lo ha fatto sottolineando come si faceva allora la cosa, e ovviamente parlo degli MTV Unplugged. Spine staccate, un-plugged, appunto.
Ora, di parlare di qualcosa che è entrato a suo modo nell’immaginario comune, seppur un immaginario che oggi suona vintage come può suonare vintage la parola MTV, roba che evoca Bret Easton Ellis prima che diventasse Bret Easto Ellis, figuriamoci, ecco, di parlare di qualcosa che è entrato a suo modo nell’immaginario comune come gli MTV Unplugged non ho interesse alcuno, stanno lì, andateveli a rivedere se li avete visti, andateli a scoprire se invece siete millennials e ignorate tanto ben di Dio. Quel che invece mi preme raccontare è un album che spesso, sbagliando, viene indicato come il fratello maggiore degli MTV Unplugged. Sbagliando perché in realtà se proprio di parentele si deve parlare sarebbe una sorta di fratellastro nato quasi in contemporanea, proprio come quelli che in genere avevano i rocker dalle loro groupie all’epoca, più figli coetanei da madri diverse, ma pur sempre un album che a suo modo ha fatto storia, perché non solo ebbe un notevole successo, ma soprattutto colpì al cuore un sacco di amanti del rock’n’roll duro e puro, che all’epoca si declinava molto spesso in chitarrone distorte e ritmi indiavolati, e che da lì in poi avrebbe giocoforza fatto i conti anche con l’acustico e con una poetica che immergeva gambe e braccia nel grande fiume del vecchio West. Parlo di 5 Man Acoustical Jam dei Tesla, band hard rock con milioni di copie vendute e qualche hit alle spalle. L’album venne pubblicato nel 1990, dopo che i fan della band lo avevano a lungo reclamato a gran voce. Era infatti successo che i Tesla, in tour con Mötley Crüe, durante un day off avessero deciso di presentarsi su un palco collaterale con uno show acustico. Una cosa estemporanea, in cui ogni membro della band proponeva una cover. Jeff Keith, il cantante, aveva optato per Signs, vecchio successo dei Five Man Electrical Band. Gli altri optarono per cover dei Grateful Dead, Comin’ Atcha Live/ Truckin’, dei Beatles, We Can Work It Out, dei Creedance Clearwater Revival, Lodi, e dei Rolling Stones, Mother’s Little Helper. Il resto della scaletta era composto da brani della band riproposte prevalentemente in acustico. Lo show fu un tale successo che si cominciò a parlare di questo live, anche fuori dal giro dei fan dei Tesla. Al punto che il tutto uscì con un titolo che omaggiava i titolari di Signs, giocando sul concetto di unplugged. Non a caso, il successivo album dal vivo di Keith e soci, che arriverà dopo la reunion del 2000, si intitolerà Replugged Live, anche se va detto che certe trovate funzionano solo una volta nella vita.
Ora, a oggi di 5 Man Acoustical Jam dei Tesla credo si sia persa traccia nella memoria collettiva, e questo è un male assoluto. L’album, riascoltato a quasi trent’anni dalla sera in cui venne inciso, suona bello e potente, esattamente come allora. Il rock privo di elettricità, che allora sembrava una conquista, è un escamotage cui, nel tempo, i rocker spesso ricorrono.
Non so se sia in effetti giusto parlarne in termini di pacificazione, come ho fatto io, ma se anche fosse servito a uno solo di voi per andarselo a ascoltare va pur bene che io sia andato a rimestare nei miei ricordi, una chitarra acustica lì, dove un tempo si trovava una Melody Vintage della Eko.