We Are Not Your Kind degli Slipknot è la tempesta dopo la quiete (recensione)

La band di Des Moines mostra un gargantuesco dito medio a quanti ne decretevano la fine dall'album precedente


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We Are Not Your Kind degli Slipknot è la sesta prova in studio della band di Des Moines. Se un tempo quegli individui mascherati si presentavano come una famiglia di psicopatici rinchiusa in un ranch a nutrirsi di viandanti ignari del loro destino, oggi Corey Taylor e soci abitano quartieri residenziali con cadaveri seppelliti in giardino, sovrastati da una colata di calce per tenere lontani i predatori che inevitabilmente attirerebbero le cronache.

No, abbiamo scherzato. Si parla di evoluzione, e gli Slipknot hanno mantenuto il timone del nu metal con la loro ricetta fatta di spezie (il growl), guarnizioni (le chitarre chiodate di Mick Thomson Jim Root), carboidrati (la batteria di Jay Weinberg) e beveraggi che innaffiano 14 tracce con synth, ultrasuoni, rumori e sensazioni disturbanti, e questo lo dobbiamo alla loro ricerca di una certa perfezione personale, dal momento in cui lo stesso frontman ha più volte ribadito che la band, a questo giro, si è impegnata per forgiare un disco che fosse unico, senza messaggi né momenti lasciati a metà nell’attesa di un episodio successivo.

5 anni dopo The Gray Chapter e ben 11 dopo All Hope Is Gone, e dopo tanti anni in cui gli Slipknot si sono gettati in una distesa di gufi appassionati che decretavano e speravano nella loro fine, We Are Not Your Kind è l’opera che si regge sulle macerie lasciate dall’allontanamento del percussionista Chris Fehn e dalla morte del bassista Paul Gray, al quale era stato dedicato The Gray Chapter con tutto il dolore e la rabbia di un pubblico deluso, una fan-zone belligerante che considerava quel disco un requiem forzato di quanto restava dopo Paul. Non è andata così: We Are Not Your Kind è lo zombie assetato di sangue e carne che ciondola tra i miasmi del cimitero per straziare chiunque capiti sulla sua strada.

La band è affamata e rabbiosa, matura e consapevole. Corey Taylor ti divora e ti incanta e Jay Weinberg ti mitraglia il petto portando avanti la lezione di Joey Jordison, lo storico batterista uscito dalla band nel 2013.

Come ogni viaggio all’inferno che si rispetti, la nostra Divina Potestate è messa da parte dal momento in cui il crescendo di Insert Coin ci prepara a Unsainted, il primo singolo lanciato per anticipare l’album e di cui avevamo paura, dopo la ridicola linea melodica di The Devil In I che anticipò The Gray Chapter. Questa volta, oltre ad avere conferma del fatto che il cantato in clean di Corey Taylor si sia spostato su note più alte, il tormento religioso si traduce in un brano decisamente violento e sofferto che riassume tutte le stanze dell’orrore e del dolore che incontreremo nell’album.

Dopo Unsainted è d’uopo raccogliere i restanti brani in più contenitori, a cominciare dai dispenser che erogano le interpretazioni vocali in clean più interessanti del disco. Birth Of The Cruel, nell’intro, strizza l’occhio a quella Prosthetics del primo album dei ragazzi di Des Moines e Corey Taylor ci regala una linea vocale che si sposta sulle quinte diminuite tenendosi su un range medio, come piace a noi, e che si muove su vocali che fanno il verso a tutta la scena alternative degli anni ’90. Il groove metal degli Slipknot trova, in questo brano, una delle sue migliori espressioni.

Il nostro viaggio lungo le parti vocali più intense continua in A Liar’s Funeral, che non ha certo la forza emozionale di Vermilion p. 2 né di Circle (entrambe contenute nel bellissimo Vol.3: The Subliminal Verses, 2004), ma riesce a collocarsi con dignità tra i canti funebri più intimisti degli Slipknot, con quei colpi di rullante che battono le membra come un’incudine. Spiders, introdotta dalla nenia inquietante What’s Next, incuriosisce per i 7/4 che accompagnano l’estrema unzione predicata da Corey Taylor, con quelle note di pianoforte che sono il carillon scelto per disturbare il nostro sonno. Le chitarre intervengono per aggiungere quel rumore da motosega che renderebbe orgoglioso il nostro amico Leatherface.

My Pain, la sorella cattiva di Hurt dei Nine Inch Nails, è una messa in moto dell’elettronica che qui troviamo ridotta a suoni e timide percussioni elettroniche. Corey Taylor è il signore oscuro, il cantastorie nascosto nelle tenebre che racconta l’amore tossico e mortale, ora tenendosi su note audaci e cupe e ora affievolendosi su un sospiro inquieto e stanco, fino a lasciare spazio a una serie di suoni imprecisi e roteanti.

Esiste, tuttavia, una serie di brani in cui il cantato si riduce ai canoni del pop più deliberato e decisamente atipico per la band di Des Moines. Pensavamo di essercene liberati dopo The Devil In I, ma quanto accade in Nero Forte supera decisamente ogni principio: l’inganno sta tutto nell’intro, nell’interludio Death Because Of Death che dignitosamente la precede e nelle strofe, perché il growl cavernoso di Corey Taylor si apre, poi, in un ritornello fatto di falsetti che potrebbero essere il frutto di un mash-up da qualche brano di una qualche boyband.

Lo stesso inganno continua nel brano successivo, quel Critical Darling che ci dà un croccantino con il groove metal iniziale per poi degenerare, ancora, in un pop fuori luogo che infesta il ritornello. Per vedere quest’incubo finire dobbiamo attendere Not Long For This World, nel quale scopriamo che le chitarre borchiate e sanguinanti non bastano per mascherare un qualcosa di fastidioso, e solamente in questo momento gli Slipknot meritano una tirata d’orecchie.

Se cerchiamo l’headbanging, il pogo e tutta la violenza brutale dei ragazzacci di Iowa possiamo star sicuri che in Red Flag, Orphan Solway Firth troveremo il piacere e la scarica elettrica: gli Slipknot sanno come non avere pietà per chi li ascolta, specialmente per la cervicale e per l’equilibro del miocardio. Solway Firth, inoltre, si rivela la scelta giusta per chiudere il disco con il suo puzzle infernale di potenza, intensità e purezza, le stesse che troviamo in Unsainted ma che nel brano di chiusura diventano più forti e definitive.

We Are Not Your Kind degli Slipknot è il discorso ripreso dopo il singolo a sorpresa All Out Life che conteneva, appunto, la frase scelta per dare un nome al disco e che anticipava il nuovo mondo dei ragazzi di Des Moines, pur trattandosi di un brano scartato dalla tracklist. Ciò che ascoltiamo, oggi, è un continuo parallelismo tra il personaggio diabolico con la maschera e l’uomo che in essa si cela, che tra cuoio e plastica respira il suo dolore e la sua rabbia. Entrambe, coniugate, creano la condensa rosso-sangue che mai si asciuga e che oggi percepiamo in 14 tracce coerenti e legate tra loro con un nodo scorsoio, inevitabilmente.