Rolling Thunder Revue di Scorsese, storie di ordinaria bugia

Il film su Netflix è un modo onesto di ‘raccontarci’ una storia: l’esperienza unica del Rolling Thunder Revue di Bob Dylan


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Non ho mai capito questa fissazione per l’aderenza totale con la verità. Come se fosse lì, e solo lì, l’indice di onestà di chi scrive.

Scrivere è esercitare una mediazione tra realtà e finzione, sempre. E soprattutto scrivere è chiedere un atto di fede. Chi legge, dall’altra parte di una pagina, di uno schermo, forse più spesso, oggi, si deve fidare di chi scrive. Perché chi scrive ha deciso di raccontare qualcosa, direttamente o attraverso una evocazione poetica, e nel farlo ha optato la famosa mediazione di cui sopra, andando a scegliere non solo le parole adatte per farlo, ma anche la modalità adatta per farlo.

Non è questa la sede, e ci mancherebbe pure altro, la Holden vi sfilerebbe fior di quattrini per spiegarvi tutto ciò, ma decidere di partire per un articolo, faccio un esempio, su Rolling Thunder Revue, il film che Martin Scorsese ha dedicato all’omonimo tour di Bob Dylan, visibile su Netflix da qualche giorno, andando a parlare di verità e finzione, e di verità e finzione nell’atto dello scrivere e, di conseguenza, del leggere è una scelta specifica. Una scelta ostica, probabilmente, ma stiamo parlando di Dylan, ci sta, è coerente col personaggio che intende affrontare, seppur tangenzialmente. Una sorta di mimesi, potremmo chiamarla.

Ecco, mi fermo un attimo. L’aver citato la faccenda della Holden, così, en passant, quasi con fare sprezzante, l’aver parlato di mimesi, senza addentrarmi in spiegazioni sono la concretizzazione di quanto ho scritto sopra. Ho voluto rimarcare, con toni saccenti, antipatici, il mio ruolo di esperto, senza per altro specificare esperto di cosa, lasciando a terra due pezzetti di pane facilmente visibili ai fratelli di Pollicino. Mi sono reso antipatico, ma del resto è quello che faccio costantemente, da anni, per veicolare un messaggio. È un espediente narrativo, neanche troppo complesso o articolato. Avrei potuto giocarmela diversamente, che so?, partire da una scena del film in questione. Magari, sarei potuto partire dal recente concerto dei Kiss in Italia, andando quindi a pescare un altro episodio di contemporaneità che fa i conti col passato, spostando l’attenzione su quanti si lascia intendere abbiano influenzato Bob Dylan a mettersi la famosa maschera bianca, per poi arrivare a parlare del nostro. O visto che scrivo, andando sul classico, potrei partire dalla famosa scena di Bob  e Allen Ginsberg sulla tomba di Jack Kerouac, magari addentrandomi in tutta una serie di miei aneddoti personali, di quando, giovanissimo, passavo le giornate a leggere Kerouac, cercando di capire come diavolo facesse a tenermi incollato alla pagina parlando spesso di niente, senza trame rilevanti, solo usando la parola, per di più la parola tradotta, perché allora leggevo libri in italiano, non gli originali.

Ci risiamo, l’ho fatto di nuovo. Ho messo lì, tra le righe, il fatto che ora, o in un punto imprecisato da quel passato passato in cui leggevo Kerouac in italiano, io abbia cominciato a leggere i libri in lingua originale, colorando volendo di spocchia queste parole. Ma l’ho fatto coscientemente, ve lo sto dicendo, da una parte giocandomi la carta della complicità con voi, provo a tirarvi dalla mia parte in quanto da poco venuti a conoscenza di un mio segreto, scrivo infilando tranelli in quello che scrivo, dall’altra respingendovi, perché seppur giocando la carta della complicità sto continuando a rimarcare come io sappia come infilare quei tranelli e voi, di fatto, no. E anche la faccenda dei lunghi aneddoti, chi legge queste pagine abitualmente ben lo sa, poteva tranquillamente essere un punto di partenza alternativo, perché siccome questo non è uno spazio dedicato alla mia autobiografia è evidente, o dovrebbe essere evidente, che se parlo di me, o di un me fittizio, perché vai a sapere se quello che racconto è vero o solo verosimile, lì per accendere certi meccanismi, è solo per parlare a suocera perché nuora intenda.

Che stronzo, eh, dopo aver parlato di mimesi, dopo aver dipanato spiegoni che neanche John Barth all’inizio dell’Opera galleggiante, citazione che non fa che confermare come io sappia, e sappia parecchio, ecco che per arrivare a voi lettori cito un detto popolare, come se voi non foste in grado di cogliere il senso di quello che sto scrivendo. O come se quello che sto scrivendo, in effetti, un senso ce l’avesse davvero, e non fosse, che so?, frutto a sua volta di una meta-narrazione, alla Blair Witch Project. Voi siete qui che provate a capire dove io voglia andare a parare e in realtà finirà che guardate un angolo buio, la strega alle vostre spalle, tanto è tutta finzione, baby, mica è la verità.

Rolling Thunder Revue è un film in cui va di scena la mistificazione. Consapevole. Esistono articoli in cui ci viene spiegato dettagliatamente come tutto il film, costruito come un documentario, sia in realtà pieno di bugie. Bugie non dettate dalla volontà di raccontare la storia dalla parte dei vincitori, si veda la questione di Bohemian Raspody, ma bugie presenti perché senza di loro non sarebbe neanche nato Bob Dylan, ci par di capire. Non è mia intenzione sciorinare tutti i dettagli, lo hanno già fatto altri, sarebbe un tornare su questioni già dette con grande efficacia. Volessi far mia la lezione di William Burroughs, ma credo che entrerebbero di scena diritti d’autore e plagi, potrei limitarmi a copia/incollare qualcosa qua e là, e spiegarvi come in una infinità di scena succedono cose che non sarebbe successe che anni dopo, o accadute anni prima, a partire proprio dalla faccenda dei Kiss e della presunta ispirazione per la biacca bianca in faccia di Dylan.

Rolling Thunder Revue, proviamo a parlare in maniera meno “deviata” del film, mette sul tavolo da gioco tre attori principali, tutti alla pari.

Bob Dylan, ovviamente, e più nello specifico il Bob Dylan del Rolling Thunder Revue, in quell’epoca specifica lì, a metà degli anni settanta, nel bicentenario degli Stati Uniti d’America, Jimmy Carter sul punto di irrompere sulle scene.

Martin Scorsese, il regista che si ritrova a raccontare il Bob Dylan del Rolling Thunder Revue, Bob Dylan che per altro aveva già raccontato il Bob Dylan del Rolling Thunder Revue nel suo film, suo inteso come film di cui era autore e regista, Renaldo and Clara, e se vi dicessi che l’ho visto, quattro ore e passa di pellicola, sì che starei mentendo per il semplice gusto di mentire, Martin Scorsese che nel film cita, a più riprese, Robert Altman e che in qualche modo va a chiudere un cerchio che Altman ha aperto proprio a ridosso della partenza del Rolling Thunder Revue, con l’epocale Nashville.

Il cinema, perché, e qui torniamo all’inizio di questa cosa che state leggendo, non so se definirlo articolo sia tecnicamente corretto, ma tant’è, Rolling Thunder Revue, il film on demand su Netflix, diretto da Scorsese e con Dylan, anche Dylan, come protagonista, è un film e in quanto tale fa costantemente i conti con una specifica forma d’arte che, come tutte le forme d’arte, è mediazione, finzione, punto di vista.

Trattandosi poi di Scorsese che incontra Dylan, ma qui finiamo in un metamondo dal quale rischieremmo davvero di non uscire più, è evidente che oltre a tutti i possibili discorsi teorici, poetici, di stile, una costante volontà di divertirsi, spesso alle spalle di chi è dall’altra parte dello schermo, a volte a fianco di chi è dall’altra parte dello schermo, con complice solidarietà.

Il Dylan di Rolling Thunder Revue, il tour, certo, il film, anche, porta la maschera, lo sanno anche i sassi. Tutto il film Rolling Thunder Revue è una maschera, per certi versi, o meglio, è una storia raccontata da un regista che ha la maschera e che riprende e fa muovere attori, a volte interpreti di se stessi, a volte interpreti di personaggi reali ma non presenti, a volte addirittura interpreti di personaggi di finzione, attori, quindi, che in quanto tali hanno la maschera.

Chi scrive, che si tratti di scrivere parole su una tastiera, di scrivere parole e note su uno spartito, ormai più che altro metaforico, o di scrivere un film, mente sapendo di mentire, ma in quel mentire, spesso, non sempre ma spesso, mette tutta la verità che conosce e che vuole e può far conoscere. Poco importa che una determinata situazione non sia coerente con la narrazione, perché avvenuta prima o dopo i fatti narrati, poco importa che tal personaggio non esista. È parte della narrazione. Come è parte della narrazione lo stile di chi narra e, laddove sia presente, la voce narrante, da non confondersi necessariamente con la vera voce del narratore. Rolling Thunder Revue è una metanarrazione, un film di finzione che è anche un documentario, e un documentario che gioca spesso la carta del mockumentary, uno This is Spinal Tap in cui, però, gli Spinal Tap esistono davvero e hanno anche vinto il Premio Nobel per la Letteratura, salvo poi bullizzare alla Bob Dylan l’Accademia di Stoccolma.

Ho letto qui e là che molti critici hanno ravvisato il focus del film nella scena in cui Dylan dice che quando qualcuno indossa una maschera è il momento in cui ti dirà la verità, mentre quando non la indossa con buona probabilità non lo farà, scena nella quale, ovviamente, Dylan non indossa nessuna maschera. Io credo, e lo credo con quella fede che, dicevamo all’inizio, e se uso il plurale nonostante a dirlo sia stato solo io, non un noi generico, non è per una faccenda di megalomania, ma semplicemente per provare, grossolanamente, di tirarvi dalla mia parte così, ex abrupto, vedi a essere radical-chic, io credo che in realtà ogni singolo fotogramma di Rolling Thunder Revue sia un modo onesto e sincero di raccontarci un’esperienza unica come fu il Rolling Thunder Revue. Onesto e sincero perché oggetto di finzione narrativa, dichiarata come tale, senza quella pretesa di coerenza alla realtà di certa cronaca, altrettanto falsa, mediata e stilisticamente ricercata, almeno in potenza, ma quasi mai in atto, e senza l’aura celeste dell’ispirazione artistica.