Ci piace una musica che esaspera sempre di più la componente visiva per compensare la scarsa qualità?

Nel nuovo scenario musicale l'udito avrà sempre meno importanza mentre la vista ne avrà di più, la tendenza potrebbe significare il tracollo della musica e della sua aura magica


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Alcuni esperti di marketing sostengono che, al giorno d’oggi, una delle difficoltà maggiori nella promozione dei prodotti è la loro progressiva “dematerializzazione”. L’industria produce mobili sempre più leggeri, apparecchi elettronici miniaturizzati, accessori “usa e getta”, sistemi con sensori invisibili, negozi virtuali e fabbriche sparse nei luoghi più remoti del mondo, così da non sapere mai chi ha realizzato il prodotto che stiamo comprando e dove lo ha materialmente fabbricato. Nelle strategie di marketing questo rappresenta un problema perché sembra accertato che – eccezione fatta per alcuni particolari oggetti o dispositivi tecnologici – se un prodotto ha un certo volume, una sua massa fisica, un luogo specifico nel quale può essere acquistato, sia più facile attribuirgli importanza e valore. Nell’epoca dei materiali ultraleggeri continuiamo a considerare il peso fisico di un oggetto – ad esempio un elettrodomestico, un soprammobile o un libro – come un indicatore della sua solidità e della sua importanza. Nel mondo contemporaneo, quello delle merci “globali”, degli ordinativi tramite Internet e delle consegne a domicilio, ci sembra che un oggetto comprato nel posto d’origine abbia maggior valore, e che la fatica fisica dello shopping sia comunque più appagante di quanto lo siano gli acquisti virtuali. Questa perdita di consistenza materiale ha investito anche i prodotti culturali, e la musica in modo particolare. Qualche tempo fa, proprio sulle pagine di Optimagazine, accennavamo al differente approccio psicologico che abbiamo quando acquistiamo fisicamente un disco di vinile – con il suo ingombro, il materiale con il quale è fabbricato, il suo odore, il suo peso, la sua presenza visiva – rispetto a quando semplicemente scarichiamo un file musicale da Internet e lo inseriamo con impressionante rapidità all’interno di una playlist, pronti a trasferirlo, cancellarlo, archiviarlo in qualsiasi momento. Un conto è la praticità dell’operazione, altra cosa è l’importanza che attribuiamo a quel prodotto e il valore che di esso percepiamo. Proprio in questi giorni un articolo di Paolo Vites, pubblicato su “Il sussidiario.net”, parla di come le nuove tecnologie stiano praticamente uccidendo la musica. L’articolo, che riporta le analisi del giornalista americano Craig Havighurst, evidenzia come i sistemi elettronici e telematici abbiano ridotto di molto l’importanza della musica come prodotto artistico: “Gli ecosistemi della musica digitale – dice Havighurst – a partire da iTunes della Apple, hanno ridotto i dischi a un’immagine di copertina di dimensioni da francobollo e a tre dati: artista, titolo del brano, album”. Spariscono in sostanza le informazioni sugli strumentisti, sugli arrangiatori, sugli autori dei testi, sul clima sociale e culturale nel quale il prodotto artistico è stato concepito; mentre il dominio dell’informazione on-line ha fatto largo ad una valanga di giudizi estemporanei del popolo delle reti spazzando via la funzione di quelle figure chiave, come i critici, i conduttori radiofonici e televisivi e gli storici della musica, che contribuivano invece a dare contenuto e solennità ai prodotti discografici. Questo senza parlare delle misere percentuali di proventi, dati dalla vendite on-line, che finiscono agli artisti e dei danni causati dalla pirateria e dalla copiatura indiscriminata dei file.

Sono tutti presagi di un imminente tracollo della musica, probabilmente non dell’industria musicale in quanto tale, ma del prodotto musicale, della sua aura magica, della sua importanza come opera dell’ingegno e dell’arte. Come difendersi dunque dalla riduzione della musica a puro oggetto di consumo, dal dissolvimento della “fisica” del disco e dei suoi luoghi di ascolto e di vendita? E soprattutto, come salvare l’artista dal rischio di scomparire anch’egli come fosse un file? Gli eventi dal vivo resteranno l’unico presidio per la musica intesa come esperienza fisica, realtà concreta, momento storico; ma la mia impressione è che, insieme ad essi, occorrerà valorizzare il prodotto musicale con elementi aggiuntivi, elementi che in qualche modo gli restituiscano “importanza”, primo fra tutti la presenza scenica e il carisma dell’artista. Se un musicista non può più contare sulla permanenza dei suoi album, sulla fedeltà del suo pubblico, sulla presenza solida e visibile della sua rete di collaborazioni e del suo contesto di riferimento, allora dovrà puntare sull’impatto mediatico, sulla capacità di imporsi all’attenzione come personaggio molto più che come artista, sull’abilità nel far parlare di sé a prescindere da quello che canta e da come lo canta. Per compensare l’impoverimento della componente musicale, sarà necessario – temo – esasperare la componente visiva, con trovate scenografiche, look estremi, atteggiamenti istrionici (già oggi, molti dei personaggi in voga sono noti per il loro impatto mediatico più che per il lavoro artistico). Nel nuovo scenario musicale occorrerà “farsi notare”, anche cambiando la gerarchia delle percezioni sensoriali: meno importanza avrà l’udito, molta di più ne avrà la vista.