The Handmaid’s Tale 3 rinuncia alla brutalità gratuita e infiamma gli animi con la resistenza clandestina a Gilead (recensione)

La salvezza personale non è più la priorità: è arrivato il momento di ribellarsi in nome di tutte le donne di Gilead.

The Handmaid's Tale 3 mostra la ribellione delle donne a Gilead

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The Handmaid’s Tale 3 ci riporta finalmente nel terrificante mondo di Gilead. I primi tre episodi della nuova stagione – disponibili su TIMvision in contemporanea Usa – mettono in moto automatismi nuovi senza rinunciare del tutto a quelli vecchi, e il risultato è un avvio promettente con appena qualche occasione sprecata.

Il discusso finale della seconda stagione, in cui June rinuncia a fuggire da Gilead con Emily e la piccola Nichole, è al contempo un limite e un’opportunità. Da un lato suscita lo scetticismo di critici e spettatori, sorpresi da una mossa che annulla buona parte dei sacrifici della protagonista. Dall’altro permette allo showrunner Bruce Miller di dare alla serie un’impronta diversa. Qualcosa di cui The Handmaid’s Tale 3 ha davvero bisogno, dopo una seconda stagione tormentata da indicibili sofferenze e poco altro.

Il cambiamento si nota, in effetti, perché si insinua tra le vie e nelle case di Gilead, nella mente di June, nel cuore di Serena, davanti e dietro la macchina da presa. Dopo la difficile ma inevitabile decisione di rinunciare alla fuga, June torna a Gilead per salvare la figlia Hannah. Non è così semplice, però. Le maglie della polizia si fanno strettissime e la nuova madre della piccola, la signora Mackanzie, impedisce a June qualsiasi contatto con la figlia.

È forse la palese difficoltà di recuperare la bambina e attraversare il confine a infondere in June una nuova determinazione. Frustrato per aver tentato invano di farla fuggire, Nick le rimprovera di essere una stupida egoista e di aver messo inutilmente a repentaglio le vite di chi ha fatto di tutto per salvarla.

Morirai qui, le dice. June lo sa, ma un nuovo fuoco si è acceso dentro di lei e il desiderio di salvezza personale si fa da parte. È resistere a Gilead e ribellarsi all’oppressione dall’interno a essere la priorità, adesso. Per mettere in moto questo motore di ribellione The Handmaid’s Tale 3 rimescola le carte lasciando a margine i Waterford e affidando June al comandante Joseph Lawrence.

Difficile definire quest’uomo secondo una banale divisione fra buoni e cattivi. È l’artefice del sistema economico di Gilead e una delle sue figure di riferimento, eppure tollera la resistenza e arriva ad agevolare la fuga di alcune donne. Mostra un attaccamento profondo verso la moglie malata e un senso di benevola pietà nei confronti di certe Ancelle e Marta, ma non rinuncia a mostrare il suo aperto disprezzo rispetto all’utilità sociale delle donne. È un uomo di sottile e oscura ironia, portato all’analisi, misurato nell’uso delle parole, straordinariamente efficace in ogni riflessione.

Il rapporto tra Lawrence e June è difficilmente inquadrabile. Nello sguardo e nelle parole dell’uomo si intuisce una curiosità quasi scientifica, eppure trasforma ogni scambio verbale in un attacco più o meno velato all’intelligenza, alle capacità, ancora una volta all’utilità di una persona come June. È questo, in fondo, il motivo per cui ha aiutato Emily a scappare da Gilead: di lei ha apprezzato la mente e la formazione scientifica potenzialmente utili all’umanità. In June, invece, riscontra un’inconcludenza sia professionale che umana. Disprezza anzi apertamente la facilità con cui sarebbe disposta a sfruttare il proprio corpo per ottenere ciò che vuole.

Ma lui non è Fred, certi giochetti non funzionano. Né June è la stessa ancella sottomessa e arrendevole appena arrivata dai Waterford. Non potendo giocare la carta della seduzione, alla nuova Ofjospeh non resta che puntare sulla schiettezza, rispondere a tono alle offese, parlare apertamente della resistenza. Ed è questo il primo e più importante spunto di rinnovamento di The Handmaid’s Tale 3: June non è più oggetto passivo e sottomesso della brutalità del sistema, ma agente attivo del cambiamento.

Questo cambio di prospettiva diventa così il motore narrativo dell’azione. La salvezza personale passa in secondo piano rispetto a un obiettivo nuovo, superiore. Non una resistenza a Gilead fine a sé stessa, dunque, ma proiettata alla salvezza di tutte le donne. June partecipa quindi alle operazioni più rischiose a fianco delle Marta, e insieme cercano di salvare le compagne dalle colonie e indirizzare le più dotate ai nuclei clandestini della resistenza.

Per ampliare la portata di ogni azione di ribellione, però, c’è bisogno di alleati potenti. The Handmaid’s Tale 3 prova per questo a recuperare il tormentato rapporto tra June e Serena, in modo che quest’ultima reagisca al dolore per la perdita di Nichole e si renda utile ad altre donne. Non è certo una cosa semplice. La decisione di Serena di staccarsi da Nichole per il bene della piccola è stata quella giusta, ma le conseguenze emotive del gesto per lei sono devastanti.

Non è chiaro quale direzione debba prendere il suo personaggio, se abbandonerà la sottile crudeltà vista nelle prime due stagioni per riscoprire il suo nucleo di umanità profonda. In questa fase la sua lucidità è alterata da una sofferenza lacerante e June la invita a sfruttare a proprio vantaggio il dolore e la paura che avverte dentro di sé. La terza stagione di The Handmaid’s Tale punterà molto su questa dinamica mossa dal dolore, ed è un bene, perché la complicità perfeta tra Elisabeth Moss e Yvonne Strahovski è quanto di meglio la serie abbia offerto finora.

Un’altra delle relazioni in bilico è quella tra June e Nick, allontanati dalla distanza fisica e dal risentimento dell’uomo per la mancata fuga dell’amata. L’unica intimità fra loro è il momento di addio – o di arrivederci, non è ancora chiaro – in camera di June, quando Nick le annuncia di essere stato dislocato sul fronte per la conquista di Chicago. Difficile che non possa tornare, ma altrettanto complesso immaginare il significato della sua assenza.

La situazione in Canada è anch’essa alquanto complicata. Emily affida la piccola Nichole alle cure di Moira e Luke, ma per quest’ultimo è difficile fare i conti con la realtà. Si ritrova così con una figlia non sua, senza la moglie, mentre la donna che invece è arrivata al suo posto avrebbe la possibilità di ritornare dalla propria famiglia e non lo fa.

La rabbia di Luke è tuttavia inutile e mal riposta. Emily è chiaramente afflitta da un profondo disturbo da stress post-traumatico e la transizione verso la normalità di questa nuova vita non è così semplice. È un peccato che la serie non sfrutti la resa eccellente dello straniamento da parte di Alexis Bledel per approfondire il trauma di Emily, il suo ricongiungimento familiare, la difficoltà di ricostruirsi come essere umano funzionante.

Nel complesso, i primi tre episodi di The Handmaid’s Tale 3 sono abbastanza ben riusciti e promettenti. La serie lascia da parte la brutalità gratuita e i costanti tentativi di shockare il pubblico e preme finalmente sull’acceleratore. Il ritmo si fa più serrato, la tensione costante e ogni personaggio diventa funzionale a una narrazione finalmente corale.

Elisabeth Moss, Yvonne Strahovski, Alexis Bledel, Ann Dowd, Joseph Fiennes e Bradley Whitford si dimostrano all’altezza di questa nuova sfida e ci ricordano che la potenza della serie non viene solo dai drammi personali dei personaggi, ma anche dalla straordinaria presenza dei suoi interpreti.

Le incertezze persistono, certo, e riguardano in particolare l’evoluzione di Serena e l’indurimento di June, dalla quale la sofferenza sembra esser stata estratta per far posto a un piglio battagliero quasi cieco. È comunque questo rovesciamento a offrire la migliore occasione di rinnovare The Handmaid’s Tale 3.

Con la sua nuova partenza la serie può slegarsi dal dramma distopico che è stata finora e spostarsi su un terreno geopolitico ancora più fertile e d’impatto. L’importante è che il suo obiettivo manifesto – raccontare una storia di emancipazione – non continui a scontrarsi con decisioni puramente narrative e umanamente incomprensibili. Nello specifico, rinunciare alla possibilità di lasciarsi alle spalle un crudele regime teocratico per combatterlo dall’interno.

Per saperne di più dovremo attendere i prossimi dieci episodi, disponibili settimanalmente su Hulu e TIMvision.