Dobbiamo educare il gusto o finiremo per essere vittime dei Modà

La musica è una forma d'arte diretta, forse la più diretta di tutte, ma il gusto può essere educato, deve essere educato.


INTERAZIONI: 1120

Mi sono avvicinato al rock per una mera questione di attitudine. E un po’ anche per caso.

Quando ero piccolo, facevo la prima elementare, mi sono avvicinato in maniera non esattamente naturale alla musica classica. Ho già raccontato questa storia più volte. Discendente di una famiglia che aveva nel nonno di mia madre un direttore d’orchestra, qualcuno deve aver pensato che fossi un predestinato, perché altrimenti non si spiega la velocità con cui sono passato dall’azzeccare la faccenda del Lago dei cigni, un giorno in cui il mio maestro ce lo ha fatto  in classe e ci ha chiesto secondo noi che storia stesse raccontando questa musica, al suonare un cazzo di violoncello dentro il salotto semibuio del maestro Moscardelli, mio insegnante all’Istituto Pergolesi di Ancona. Nel mentre, è vero, un veloce passaggio dentro la Banda della mia città, a provare a suonare il clarinetto, ma è col violoncello che ho iniziato a studiare seriamente musica. Violoncello e solfeggio, solfeggio e violoncello, due coglioni così. L’ho già raccontata, quindi non voglio tediarvi oltre con questa storia. È comunque evidente che la musica classica non doveva essere la mia cosa, perché a un certo punto ho mollato tutto e mi sono dato al calcio. Un destino baro, il mio, perché nonostante fossi anche bravino, non era neanche il calcio la mia cosa. Io che, credo come chiunque, pensavo a un futuro a dar calci a un pallone, mi sono trovato nel giro di un niente a studiare greco e latino al Liceo Classico, non prima di aver fatto un anno di ragioneria.

Ecco, la faccenda del perché io mi sia iscritto a ragioneria, forse, meriterebbe un piccolo approfondimento. Dice molto di come girassero le cose per me negli anni Ottanta. E credo non solo per me. Perché se è vero come è vero che non ho memoria del mio passato, è anche vero che, pur concentrandomi, non vi è traccia in me del momento in cui, in casa, si è discusso di che scuola avrei fatto dopo le scuole medie.

Anche lì, come per la faccenda della musica classica, è come se fossi stato predestinato a fare ragioneria, figlio di un impiegato dell’azienda trasporti ex bigliettaio e di una casalinga, perché da un giorno all’altro mi sono trovato iscritto all’Istituto Benincasa, senza che neanche avessi la minima idea di che materie mi sarei trovato a studiare. Tutte materie che mi facevano parecchio cagare, da stenografia a dattilografia, passando per altre di cui il mio subconscio a ben visto di smaltire i residui in maniera definitiva.

Faccio questo anno lì, in una classe di cui, vedi sopra, ho poca memoria, e poi decido che la mia cosa è il classico. Vengo promosso, fatto che mi distingue da buona parte dei miei compagni, perché volevo sì cambiare, ma non lasciare l’impressione che stessi cambiando per una questione di viltà. La mia non era una fuga, era un beau geste, qualcosa che nella mia testa stava a cavallo tra il dadaismo e l’iconoclastia. Del resto proprio in quell’anno Enrico Ruggeri presentava Nuovo swing al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, mica potevo accettare di essere come tutti gli altri.

Vengo promosso, insieme a altri quattro compagni a giugno, e vado via.

Mi iscrivo al classico.

Ricominciando da capo.

Ora, il fatto che io in queste poche righe abbia esternato il mio passaggio veloce dal clarinetto al violoncello, passaggio interrotto dai miei sogni di diventare una fulgida ala sinistra, il tutto mentre studiavo ragioneria sognando però di finire al classico, classico, questo non l’avevo ancora detto, durante il quale ho ripreso in mano uno strumento, la chitarra, iniziando a studiarlo da solo, come in effetti con la chitarra si dovrebbe sempre fare, tradisce qualcosa.

Che io sia un po’ discontinuo?

Forse.

Che io sia perennemente indeciso?

Anche.

O più semplicemente che abbia deciso, allora inconsciamente, poi più consapevolmente, per questo a un certo punto subentra quella che viene chiamata maturità, che avrei seguito un flusso, più che una linea retta. Un flusso che mi avrebbe portato non sapevo bene dove, ma sicuramente da qualche parte.

Così, mentre stavo lì a imparare con la chitarra le canzoni de Le Orme e di Jackson Browne, eredità genetica di mio fratello Marco, come quelle di Claudio Baglioni, eredità genetica di mia sorella Caterina, e so che pensare oggi, dopo il casino di Sanremo, dopo i servizi con Striscia la Notizia, che io in passato abbia passato pomeriggi a provare a tirare giù i tanti, troppi accordi de La vita è adesso di Baglioni potrebbe far amaramente sorridere ma tant’è, così, mentre stavo lì’ a imparare con la chitarra le canzoni delle Orme e di Jackson Browne, eredità genetica di mio fratello Marco, come quelle di Claudio Baglioni, eredità genetica di mia sorella Caterina, ecco che influenze extra-familiari cominciano a scardinare quelle che fino a quel momento potevano essere delle certezze, le mie certezze. Certezze, va detto, di un ragazzo che era passato da ragioneria al classico, e che aveva preferito imitare le punizioni di Magrin piuttosto che provare una carriera da concertista.

In questo due figure sono state centrali, anzi, tre. I fratelli Bartola, Paolo, più grande di me di due anni, e Roberto, più piccolo di me di un anno, che abitavano sotto casa mia, e Stefano Renzi, un mio amico della parrocchia che i miei, nonostante avessimo cambiato quartiere da oltre un decennio, continuavano a frequentare.

I fratelli Bartola abitavano, con tutta la loro famiglia, che comprendeva i genitori e una sorella più piccola, Sara, nel piano sotto il mio, in via Vittorio Veneto 1, a Ancona. Stefano abitava in largo Belvedere, al centro storico della medesima città. In quegli anni io sarei passato dall’abitare in via Veneto all’abitare in Piazza Malatesta, a pochi passi da Largo Belvedere, là dove un tempo era la casa dei miei nonni paterni, distrutta dal terremoto del 1972. Piazza Malatesta, per chi è di fuori Ancona, è nota in città come il Campo della Mostra, perché era lì che in tempi passati venivano esposti i cadaveri dei delinquenti uccisi dal Boia. La casa del Boia, e poi la finisco con queste stronzate da psico-geografo, sta nella curva sottostante la Cattedrale di San Ciriaco, in cima al Colle Guasco. Perché sì, Ancona è una delle rare città in cui la cattedrale non è in prossimità del centro, anzi, è proprio distante dal Comune e dal resto dei luoghi della vita cittadina. Fine del momento Iain Sinclair.

I fratelli Bartola, dicevo, abitavano sotto casa mia, in Via Vittorio Veneto. Con loro sono cresciuto, quando ero un bambino, e con loro ho continuato a crescere, da ragazzino, seppur a singhiozzo. Paolo, il fratello maggiore, ha avuto una sbandata per la New Wave, da ragazzo, e questa sua passione non ha potuto che influenzare anche me. Roberto, il fratello minore, si è più orientato al punk, credo sia stato il mio solo amico a indossare un collare da cane o a avere l’orecchino nella parte alta dell’orecchio, dove c’è la cartilagine, per dire. Con lui ho messo su una band, anni dopo, che nella mia testa si doveva chiamare Dead Kossigas, in omaggio ai Dead Kennedys che entrambi adoravamo, ma che in realtà si chiamò Epicentro. Io suonavo la chitarra elettrica, lui il basso, un basso Iris comprato per poche migliaia di lire durante un suo viaggio in treno in Cecoslovacchia. Con noi c’erano poi Michele alla batteria e Emanuele al canto. Ma non è di questo che voglio parlarvi. O almeno non del tutto.

Loro, i fratelli Bartola, compravano un sacco di dischi, quasi tutti stranieri. Io all’epoca avevo meno soldi, non me li potevo permettere. Quindi loro me li prestavano e io li registravo in cassette da 90 della BASF, per motivi che a ripensarci mi sfuggono. Un album per lato. Ogni tanto, quando c’erano album troppo lungi, riempivo la parte rimanente del Lato B con le canzoni che non ero riuscito a mettere correttamente in uno dei due lati di un’altra cassetta, facendo una sorta di antologia di tracce minori.

Ho così cominciato a farmi una cultura di musica new wave, dark, punk, rock e tutte le etichette di genere che vi possano venire in mente legate agli anni 80. Leggevo anche delle riviste di genere, tipo, vado a memoria, Rockerilla, Jam, Buscadero, Mucchio Selvaggio. Mi interessava, lo confesso, più leggere che ascoltare realmente quella musica. Perché, abituato a Jackson Browne e a Baglioni, quei suoni dissonanti, distorti, violenti, mi sembravano indigesti. Ma da un punto di vista intellettuale, invece, mi riconoscevo appieno nella volontà di tutti quei musicisti di andare contro un sistema. Sempre che lo facessero davvero. Mi ritrovavo più nell’attitudine punk che nei suoni punk, per essere chiaro, ma ero convito, in parte lo sono anche oggi, che la musica sia anche una faccenda mentale, culturale, quindi non vivevo la cosa con fastidio. Anzi. Nel mentre Stefano, l’altro mio amico, quello che abitava nel quartiere in cui sono nato e nel quale sarei tornato a vivere, mi introduceva a certo rock americano assai meno spigoloso. Dai R.E.M. ai Guadalcanal Diary, passando per i Dream Syndicate, ma anche i classici come Bob Dylan o i Byrds. Stessa modalità, lui comprava un sacco di dischi che io poi mi registravo. Nel mentre che li ascoltavamo giocavamo a Subbuteo, e anche lì, è stato lui a introdurmi a quel gioco, lui a farmi conoscere il calcio inglese assai prima di Sky Sport o Sky Calcio.

Quelli erano anni così, mi imbevevo di input, provavo a trarne qualche conclusione, ma più spesso mi ritrovavo a spostarmi in continuazione da un punto all’altro, vagando alla ricerca di una qualche verità. In classe mia, nel banco con me, al liceo classico, c’era Vittoria, una mia amica di un paesino vicino Ancona. Anche con lei ho a lungo chiacchierato di musica, perché, metabolizzati gli input dei fratelli Bartola e di Stefano, stavo cominciando a orientarmi anche io verso un rock adulto, di ricerca. Lei sarebbe poi diventata, e lo è ancora, la batterista dei Massimo Volume, ma questo solo dopo essersi trasferita a Bologna, ai tempi dell’Università. Sorte toccata anche a me, ma da fuori sede. Sempre una faccenda di soldi, immagino. Lei al Dams, io a Storia Moderna, perché sembrava che per fare il giornalista toccasse studiare storia, vai a capire perché. In qualche modo la storia dei Massimo Volume, nata intorno all’Isola nel Kantiere, centro sociale sorto dove oggi si trova il Teatro del Sole, in via Galliera, a due passi dal salvifico Disco d’Oro quanto dalla sede della Nazionale Cantanti, noto per aver generato l’Isola Posse AllStars, quelli del rap primordiale Stop al Panico, è stata raccontata da Silvia Ballestra nei suoi libri dedicati a Antò lu Purk, tipo Il compleanno dell’Iguana e La guerra degli Antò. Quella stessa Silvia che poi sarebbe diventata mia ispiratrice nel decidere di mollare la chitarra e di intraprendere la carriera, chiamiamola così, di scrittore, nella sede anconetana di Transeuropa, casa editrice che l’aveva lanciata, grazie alle antologie Under 25 curate da Pier Vittorio Tondelli, e che avrebbe lanciato soprattutto Enrico Brizzi e il suo Jack Frusciante è uscito dal gruppo, mia ispiratrice, quindi, e mia amica, coi nostri figli a frequentare le stesse scuole a Milano. Il Michele polemico che trovate nel suo romanzo, Le mie amiche, uscito qualche anno fa e proprio intorno alla scuola dei nostri figli ambientato, sono io. Strana cosa, finire dentro il libro di chi in qualche modo ti ha spinto a scriverli, i libri, un po’ come potrebbe essere avere Enrico Ruggeri o Jello Biafra dentro un disco mio. Ah, sì, Enrico Ruggeri c’è in qualche modo finito, ma anche questa è un’altra storia, già raccontata.

Ma a questo punto qualcuno di voi potrebbe essersi chiesto: perché vi sto raccontando tutte queste cose?

Perché ho cominciato parlando di rock e sono finito a raccontarvi i cazzi miei per oltre diecimila battute?

Semplice, perché col tempo, a furia di studiare, ipotizzare, teorizzare, leggere, ascoltare, la musica rock, come quella punk, quella hardcore, ah il mio amore infinito per Grant Hart e Bob Mould, come anche tutto il resto, ha cominciato a piacermi. Molto. Quando nei primi Novanta, dopo aver suonato in un po’ di band locali con le quali facevamo feste e sagre, ho cominciato a suonare negli Epicentro il punk era la mia musica. Una delle mie musiche. Perché continuava a essere mio anche Baglioni, come i Teenage Fanclub, gli Stone Roses, i Jane’s Addiction e tanta altra. Con la musica funziona così, credo. Ti deve arrivare, certo, per usare un brutto verbo adattato al caso da Simona Ventura, ma devi anche lavorare per fartela arrivare. Devi studiare per poterla capire, metabolizzare, assimilare.

La musica è una forma d’arte diretta, forse la più diretta di tutte, ma il gusto può essere educato, deve essere educato. Altrimenti potremmo anche finire per credere che l’ultimo singolo dei Modà non sia la merda che, non l’ho ascoltato e non intendo farlo, sicuramente è. Come potremmo faticare a capire perché Mike Patton, Les Claypool e John Zorn, quando si trovano nella stessa stanza o sullo stesso palco, non possono che creare qualcosa di divino.

Per la cronaca, alla fine non mi sono laureato. Ho dato ventuno esami su ventidue, a Storia Moderna a Bologna, ma ho mollato il colpo. Per certi versi sono riuscito a fare quello per cui avevo studiato, anche se chi mi definisce giornalista, in genere, ha poi problemi a fermare il sangue che gli esce dal naso dopo che l’ho centrato con una testata. Sia come sia non mi sono mai laureato. Aspetto che mi diano quella ad honorem, se qualcuno ha amici nel direttivo di qualche ateneo sparga la voce.