Viviamo in un’epoca che ha come colonna sonora musica demmerda

Lo streaming permette di sentire musica ovunque. Ma siamo sicuri che non sia meglio fermarsi per ascoltare musica?

musica in streaming

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L’altro giorno ho portato i miei gemellini, Francesco e Chiara, sette anni e mezzo, a una festa di compleanno di tre loro amici. Una festa che si teneva in uno di questi parchi al chiuso, di quelli coi giochi gonfiabili, l’area dove possono correre e scavezzarsi, purché senza scarpe e con gli antiscivolo. Un luogo nato principalmente con questo scopo, ospitare feste di compleanno, ma che è anche una pizzeria. Mentre ero lì, la festa si è svolta di pomeriggio, e mentre un tornado di bambini si rincorrevano urlando, le casse del locale trasmettevano musica demmerda che potesse piacere a un pubblico generalista, a metà strada tra i sette anni, cioè ai festeggiati e ai loro amici, e ai trenta, quaranta e cinquantenni, cioè i genitori dei festeggiati e dei loro amici. Non vi sto a indicare i nomi degli interpreti dei brani, se avete idea di cosa sia la musica demmerda che gira oggi già li avrete intuiti. Ecco, mentre ero lì, e mentre un tornado di bamnini si ricorrevano urlando e le casse del locale trasmettevano musica demmerda, sono stato a chiacchierare coi genitori degli altri bambini, persone che frequento saltuariamente da qualche anno, nel caso di chi ha frequentato anche l’asilo coi miei figli, o da un paio d’anni, cioè da quando hanno cominciato le elementari. Una conoscenza quindi non troppo approfondita, di quelle che ti permettono di starci a parlare due, tre ore, del più o del meno, se sei lì per una festa di compleanno. La conoscenza non troppo approfondita, però, è incappata in quella lieve sovraesposizione che mi è piombata addosso durante l’ultimo Festival di Sanremo, la faccenda di Salzano e Baglioni, Striscia la Notizia, insomma. Ciò ha fatto sì che, a differenza delle altre volte, il del più o del meno di cui si è costantemente parlato nel corso delle due, tre ore in cui sono stato al compleanno degli amici dei miei gemellini fosse  sempre relativo al mondo della musica, il mio, in sostanza. Nello specifico si è cominciato parlando di Vasco, perché il fatto che lui abbia negli ultimi giorni condiviso qualche storia su Instagram che ci mostrava insieme ha svelato a chiunque lo segua o mi segua il fatto che stiamo lavorando insieme, per poi passare a Salzano, che ormai suppongo sarà una sorta di tassa da dover pagare in società, e finire, questo sì argomento di cui mi diverto a parlare, di come la musica oggi non sia poi così facilmente decifrabile per chi la frequenta un po’ come i frequentiamo noi genitori dei bambini delle elementari, sporadicamente. Si è quindi parlato di nuove scene musicali, dalla trap all’indie, con gente normale, più verso i quaranta che i trenta, e che in virtù di questo, ovviamente, non aveva la minima idea di chi fossero i vari Calcutta o affini, palesando un minimo di reazione solo al nome di Sfera Ebbasta, non certo per questioni musicali ma per la tragedia di Corinaldo. Si è parlato di nuove modalità di ascolto, Spotify in primis, e anche lì, toh, vedi a volte, molti neanche sapevano cosa fosse, convinti che ancora la musica si ascoltasse coi cd. Si è parlato di come erano belli i tempi andati, anche se io, tecnicamente, ero uno dei più vecchi presenti, perché i miei gemelli sono rispettivamente il terzo e la quarta di quattro figli. Insomma, si è parlato del più e del meno, e io, lo confesso, visto che mi capita abbastanza spesso di incappare in queste situazioni, ho un pochino recitato una sorta di copione, raccontando sempre gli stessi aneddoti pret a porter e citando situazioni comprensibili anche a un uditorio non di addetti ai lavori, così da scansare la fatica di dover approfondire.

Quando ci siamo però trovati a parlare di streaming, di Spotify nello specifico, e quando ho cercato di spiegare la mia posizione radicale, il tutto a un gruppetto di persone che in buona parte non era a conoscenza dell’esistenza del tutto, se non parzialmente, uno dei papà presenti ha detto una frase che mi ha particolarmente colpito. Si parlava di come il vinile fornisse un ascolto decisamente più adatto, non tanto per la nota questione del fruscio, dai più definito, legittimamente, come “una rottura di coglioni”, tanto i bambini erano altrove, quanto per una questione di frequenze, non penalizzate dalla compressione tipica del digitale. Ecco, a questo punto il papà se ne esce con qualcosa che suonava pressappoco come “Certo, però adesso la musica la ascolti dappertutto e sarebbe impossibile farlo con un vinile”. In realtà lo ha detto usando parole, che ora ovviamente non ricordo, parole che tendevano a far passare la faccenda del sentire la musica ovunque non tanto come una possibilità, o un dato di fatto, ma quanto come una necessità, se non addirittura un dovere. Al che io, che sono luddista, è noto, e pragmatico, indossando la mia parrucca da Luigi XIV e disegnandomi un neo con la matita sulla pelle imbiancata dalla cipria ho detto: “Ma mica è obbligatorio ascoltarla sempre e ovunque la musica”. Una frase del cazzo, che forse non giustificherebbe né la credibilità che in effetti i genitori presenti mi hanno concesso, suppongo e spero più in virtù del mio ruolo professionale che delle banalità che ho dispensato tra un Tanti auguri a te e uno scartamento di regali, una frase del cazzo che però, lo giuro, ha in qualche modo messo in crisi tutti. Come se di colpo avessimo realizzato che in effetti il fatto di poter ascoltare la musica sempre e ovunque, figlia prima dell’iPod e dell’MP3, certo, ma ancor più oggi di Spotify e dello streaming, ci ha come indotti a pensare che dovessimo ascoltarla sempre e ovunque, a discapito della qualità dell’ascolto, perché uno smartphone ci consente ascolti di merda, e anche di una scelta oculata, perché ascoltare dieci ore di musica al giorno, se non siamo veri cultori, ci porrà di fronte a tante di quelle cagate che in confronto le playlist dei grandi network radiofonici sembrano la scaletta di Umbria Jazz dei tempi andati, tipo quando capitava di vedere Sting con Gil Evans.

Ora, è chiaro che volessi vagamente romanzare il tutto, come se introdurre una recensione con un incipit che dura suppergiù quanto in genere durano tre articoli normali uno dietro l’altro non fosse già sufficientemente romanzarlo, ecco, se volessi vagamente romanzare il tutto dovrei dire che i pochi genitori che sapevano cos’era Spotify, peggio, che utilizzavano Spotify, questo verbo al passato anticipa cosa sto per scrivere, di colpo, zac, hanno cancellato la app spinti dalle mie sagge parole, mentre gli altri, ignari fino a poco prima hanno giurato eterna fedeltà al vinile e all’alta fedeltà, appunto. Nei fatti è arrivata una ragazza vestita da Minnie che ci ha detto, parola più parola meno, che di lì a poco ci sarebbe stato il taglio della torta, con lo stesso trasporto che in genere ha Maria De Filippi durante le televendite nei suoi programmi, vanificando il tutto.

Ma la verità emersa da quelle chiacchiere da festa di compleanno al Jungla Park, questo il nome, è in effetti di quelle che non potevano rimanere lì, al Jungla Park. Oggi abbiamo un problema serio con l’ascolto della musica. Siamo diventati bulimici, e come spesso capita a chi non riesce a fermarsi nel fagocitare tutto quello che ha incontro, ascoltiamo quasi esclusivamente merda. Non selezioniamo, infatti una canzone su tre in Spotify passa da una playlist, e prendiamo per buono tutto quel che passa il convento. Del resto succede così con tutto, anche con le informazioni, con i rapporti sociali, con le pubblicità più o meno indotte. Prendiamo tutto quel che ci passano e lo prendiamo, qui sta il dramma, per buono.

In realtà, non dico niente di ulteriormente profondo, lo ammetto, il fatto di non faticare a fare una cosa lo ha privato di valore. Anche il fatto di farlo sempre e ovunque. Per dire, la canzone Oro di Mango, o della Bertè, se qualcuno se la ricorda più in quella versione lì, diceva una grande verità: finché c’è il desiderio mi mandi fuori di testa, ma se ci stai senza neanche uno sforzo tutto svanisce.

Ecco, è come se la musica fosse per noi come la protagonista di Oro, ce la da al primo approccio, senza neanche costringerci al corteggiamento. Non dobbiamo dare l’ultima Marlboro, perché ce l’ha già piazzata sotto il naso, e ce la piazza talmente tanto sotto il naso che dopo un po’ ci viene a noia, neanche ci prestiamo più attenzione. Quando una volta, invece, per ascoltare un disco toccava prima andarlo a comprare, senza neanche avere avuto l’occasione di ascoltarlo prima, quindi spesso a scatola chiusa, o al massimo fidandosi di qualche critico musicale che ne aveva parlato su qualche giornale, pensa te, quando una volta toccava quindi andare a comprare un disco a scatola chiusa, poi tornare a casa, perché mica c’era Amazon che ce lo consegnava a domicilio, metterlo sul piatto dopo averlo pulito col panno, lì nella stanza dove lo stereo si trovava, non ovunque, e toccava a un certo punto alzarsi per cambiare lato, passare dall’A al B, ecco, quando ascoltare musica prevedeva tutte queste azioni, a partire dall’aprire il portafogli per tirare fuori neanche troppi pochi soldi, beh, è un po’ come se la tipa di Oro di Mango, o della Bertè, ce la fossimo pure portata a letto, ma dopo averla corteggiata, dopo essere andati a cena insieme, magari anche a passeggio sotto le stelle. E non cagatemi il cazzo dicendo che ho usato un esempio sessista, perché la canzone Oro parla di questo, mica l’ho scritta io.

Questo esempio, purtroppo, l’altro giorno, al Jungla Park non mi è venuto in mente. Avrei ulteriormente accresciuto la mia reputazione di esperto di musica, anche se probabilmente non più di quanto una semplice storia di Vasco che mi tagga può fare in pochi secondi. Lo so, lo so che citare quasi con fastidio il fatto che Vasco mi tagghi su una storia di IG fatta insieme a me è un po’ da stronzi, come a voler far finta di non vantarsi del fatto che Vasco abbia fatto una storia con me su IG, taggandomi, in realtà vantandosene, anzi, più storie con me su IG taggandomi. Ma Vasco ha fatto più storie con me su IG taggandomi, mica penserete che non me ne vanti.

Non mi vanto, invece, anzi, non fosse che mi trovo qui a raccontarlo quasi direi che mi dispiace di vivere in un’epoca che prevalentemente verrà ricordata per aver avuto come colonna sonora una quantità incredibile di musica demmerda. Certo con belle sacche di resistenza, ma resistenza a un mare montante di musica demmerda.

Oggi, del resto,  il mondo va così, questo l’ho capito anche io che ostento posizioni radicali e che mi ostino a non ascoltare canzoni se me le passano come link di Spotify, mica sarà un caso che poi mi vengono in mente paragoni come questi, tra una canzone scritta da Mango quando Daniel Ek, fondatore di Spotify, aveva appena tre anni.