Quando si accorgeranno, certi “artisti”, che faranno la fine di Peter Steele?

L'artista newyorkese posò nudo per Playgirl convinto che fosse una rivista letta solo da donne; ma così non era.


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Circa quindici anni fa, dopo essere arrivati a Milano da Ancona nel 1997, esserci sposati nel 1999 e aver avuto una figlia nel 2001, io e mia moglie Marina abbiamo deciso che questa sarebbe in effetti stata la nostra città. Una scelta non semplice, perché la provincia è sì sonnacchiosa e malefica, ma è pur sempre il luogo in cui siamo nati e abbiamo affondati le nostre ragioni, ma una scelta irreversibile, perché è qui a Milano che abbiamo iniziato a lavorare e abbiamo finalmente potuto pensarci come una famiglia.

Quando uno decide di comprare casa, in genere, si deve confrontare con un mercato che altrimenti gli è del tutto estraneo. Un mercato a parte, perché di case non se ne parla in tv, o almeno non se ne parlava allora, prima di Real Time, e soprattutto non ci sono spot, non c’è un catalogo, una rivista che te le presenta. Così abbiamo iniziato ad andare in giro con il naso rivolto verso i portoni, dove si trovavano e si trovano ancora oggi quei cartelli che annunciano appartamenti in vendita e siamo cominciati a andare anche per agenzie immobiliari. Oggi ci sono i siti, ovvio, ma all’epoca funzionava prevalentemente così. Così e col passaparola, ma prevalentemente così. Il 2005, lo dico per i più distratti, era prima della crisi economica del 2008, quindi si era in piena bolla speculativa per quel che riguarda il mattone. Tutti compravano, anche perché le banche i mutui te li tiravano dietro, e di conseguenza un sacco di gente vendeva. Chi vendeva, ovviamente, faceva ottimi affari, perché quando si è in una bolla i prezzi sono sparati verso l’alto. Al punto che venivano messe in vendita anche case che case non erano. In un anno e mezzo di ricerca, tanto è durata, ho visto spacciate per appartamenti cantine senza finestre, tuguri che davano su cavedi umidi e bui, garage, soffitte rubate al condominio, davvero di tutto. Ne ho vista addirittura una, che era stata la casa di una coppia che si era appena lasciata, in cui la moglie aveva cosparso tutte le pareti di merda. Di questo, ovviamente, l’agente immobiliare, agente immobiliare che come tutti i suoi simili esibiva un’eleganza banale, con abito grigio carbonio, cravatta con il nodo spesso, fucsia, scarpe con la punta squadrata, di questo l’agente immobiliare si accorto nello stesso momento in cui me ne sono accorto io, cioè una volta entrati nell’appartamento. O meglio, questo l’ha intuito quando l’ho intuito io, talmente forte era l’odore di merda in quell’ingresso, ma ne ha avuto certezza nel momento in cui ha tirato su le tapparelle, vedendo questo scempio.

Insomma, era una bolla speculativa, c’era davvero di tutto in giro.

Nel 2005 abbiamo comprato casa, abbiamo ottenuto un mutuo nonostante io faccia il lavoro più strano del mondo, e poi, dopo pochi mesi, è arrivata la crisi.

Ma non è di tempismo che vi voglio parlare, bensì di bolle. E di pareti di case che vorrebbero spacciarci per ottime soluzioni alle nostre esigenze ma che in realtà si dimostrano solo pareti spalmate con la merda.

Siamo nel 2019. Il mercato immobiliare è cambiato parecchio. E chi se ne frega. Oggi c’è un’altra bolla piuttosto evidente, quella che vorrei affrontare, la bolla dello streaming.

Provate a fare questo semplice esercizio con me. Andate in rete e fare un salto sul sito della FIMI, la Federazione Industria Musicale Italiana. Andateci e date uno sguardo alla sezione dedicata alle certificazioni. Ridete squassantemente, se siete tra quanti riescono a ridere anche delle disgrazie. Poi passate a fare qualcosa di più interessante. Ritornateci qualche altra volta, a distanza di qualche giorno. Facendo sempre le stesse medesime azioni.

Quello che vi salterà all’occhio, sempre che non siate dotati di un subconscio di quelli che rimuovono istantaneamente ogni brutto ricordo, è che nel corso dei giorni vedrete certificati Disco d’Oro o Disco di Platino una serie di artisti, o meglio, una serie di singoli e album di artisti, chiamiamoli generosamente così, che in un mondo giusto, o anche solo in un mondo che non sia la rappresentazione plastica di un buco di culo peloso come quello immortalato a suo tempo dai Type O Negative nella copertina dell’immortale The origin of the feces, non sarebbe neanche preso in considerazione dal mercato, a meno che il mercato non volesse mettere in atto un qualche gesto di puro bullismo, tipo come quando da ragazzini i più sfigati erano costretti dai più grandi a dichiararsi pubblicamente alle ragazze più belle tanto per ridere poi tutti insieme nel momento del gran plateale “manco morta”. Gente che, poi, non riempie non un palasport, come in teoria ci si dovrebbe attendere da chi domina le classifiche, ma neanche i pub sotto casa. Gente che, spesso, scompare nel giro di una nottata. Non solo dal panorama ma anche dalle classifiche, dove capita di vedere Mr X arrivare tra i primi posti oggi e scomparire domani. Ma quella breve permanenza, pensa te, pur non generando economie, genera certificazioni. Quelle stesse certificazioni che uno come Salmo, cioè uno che invece in classifica c’è rimasto a lungo e che i locali li riempie anche, ha giustamente equiparato alla Coppa del Mondo di calcio vinta andando però a giocare a calcetto con gli amici il giovedì sera.

E qui arriva il cuore di questo articolo. La bolla di cui si faceva cenno un po’ di righe fa. Prendiamo un nome a caso, uno dei tanti stocazzetti che finisce in classifica, è sempre alto su Spotify e si prende tre o quattro dischi di platino per i singoli e magari per l’album che li contiene. Ecco, stocazzetto in questione potrebbe essere legittimato a essere un artista di successo. Uno che ha svoltato. Passano i mesi, arrivano le rendicontazioni della SIAE e si accorge che, ahilui, a tanto successo non corrisponde anche altrettanto denaro. Niente cash, zio, per dirla con parole sue.

Ma restano i trofei. E la percezione che quei trofei portano con loro. E anche le tante chiacchiere che si stanno facendo intorno a quanto lo streaming abbia ridato vita al mercato discografico. Un mercato, servisse una polaroid per fotografarne il momento del decesso, che prende il nome da un oggetto che neanche esiste più, pensa te quanto è vivo e vegeto. Comunque tutti cantano le lodi dello streaming, discografici in testa, ora non è che possono far finta che non sia niente vero. Anzi, devono sostenere la parte. Ci sta. Solo che succede questo, i tanti stocazzetti con le certificazioni in casa pensano, legittimamente, che essere multiplatino e non aver guadagnato nulla non sia bello. Per cui, siccome Spotify non paga, decidono che a pagare debbano essere le case discografiche. Quindi vanno dai loro discografici e chiedono di ridiscutere i contratti, di rivedere i recording cost e tutto il resto. Cioè, è vero che hanno ottenuto quelle certificazioni investendo il corrispettivo di quanto si spende in genere in caffè in un mese se si è di quelli che al terzo caffè già diventano tachicardici, ma ora è il momento di bussare cassa, e quindi chiedere qualcosa di più, magari pensando di farci su una bella cresta. Vaglielo a spiegare, ora, che in realtà quelle certificazioni non hanno generato economie neanche per la casa discografica. Che si tratta di tutta fuffa, una cantina senza finestra spacciata per ampio trilocale con splendido panorama.

Non bastasse, c’è anche l’altra parte del cielo con cui fare i conti. I vari artisti di mezza età, anche quelli che la mezza età l’hanno superata, i cui contratti sono ancora validi e che si aspettano di avere quei centocinquanta, duecentomila euro per fare album che poi venderanno qualche centinaia di copie e che su Spotify non si inculerà nessuno. Come glielo dici a questi che è meglio pagare la penale e rescindere il contratto che farli lavorare per nulla?

Ci sono, ultima parte di questo simpatico quadretto, quelli che magari i contratti ce li hanno da rinnovare, ma che mandare via sarebbe un po’ complicato, perché fanno catalogo, sono nomi troppo grossi per accompagnarli all’uscita, ma sono pur sempre nomi fuori dal nuovo mercato, quello che genera finti Dischi di Platino invece di euro. Per dire, chi glielo spiega a Zucchero che andare in giro un mese negli States per cercare il giusto suono di dobro, da oggi in poi, è un lusso che la Universal non si può permettere? O chi glielo dice a Venditti che il prossimo album, se proprio lo vuole fare, glielo faranno incidere a Nardelli, quello che ha appena ammazzato la carriera di Ligabue, bravo a lavorare con Gazzelle, ci mancherebbe altro, ma quando si tratta di mettere le mani su un blockbuster (o ex blockbuster) è un disastro?

Tre problemi in uno. Una bella casa ampia e soleggiata con le pareti spalmate di merda dall’ex moglie del proprietario. Chapeau.

Ora, siccome non mi piace infierire su chi è già moribondo, e ho sempre ritenuto che quando ferisci a morte qualcuno è meglio ucciderlo che lasciarlo lì agonizzante, credo sia il caso di mettere una chiusa definitiva a questa storia qui.

E torno a parlare per un attimo dei Type O Negative, la gigantesca band metal newyorkese capitanata dal mai abbastanza compianto Peter Steele, quelli citati poco sopra a proposito di buchi di culo messi in copertina di album.

Peter Steele era un gigante. Non solo musicalmente, ma anche come persona. Due metri e tre di altezza. La faccia di chi, non avesse fatto il cantante, probabilmente avrebbe trovato posto in una milizia di mercenari in qualche paese del Sud America. Una voce capace, andatevi a sentire tutti i suoi lavori, non solo la famosa e strepitosa Black No 1, di farti chiudere il buco del culo a tappo, sempre rimanendo in quella simpatica metafora. Un gigante di talento. Certo con qualche ombra, ma se nella vita fai la rockstar e non hai ombre, beh, ci deve essere qualcosa che non quadra. Sia come sia, un bel giorno a Peter Steele arriva la telefonata del direttore di Play Girl, che gli propone di posare nudo per la copertina. È il 1995, i Type O Negative sono già una realtà di successo. Peter accetta e la foto diventa, siamo in epoca pre-social, a suo modo virale. Molte delle riviste musicali la riprendono, se ne parla. Molti, a partire da alcune dichiarazioni di Peter Steele stesso, la prendono per quello che è: una provocazione. Un gesto da rockstar, appunto. Solo che a un certo punto qualcuno spiega al buon vecchio Peter, che è solito vantarsi di aver posato con l’uccello di fuori per una rivista per sole ragazze, che la situazione è un po’ diversa da come gliel’hanno raccontata. A comprare PlayGirl, corrispettivo apparentemente femminile di PlayBoy, non è in realtà un pubblico femminile. Solo il 30% degli acquirenti della rivista patinata è donna, il resto è costituito da uomini. Peter aveva già avuto il sentore che qualcosa non quadrasse, quando spesso gli capitava di dover autografare il paginone centrale a aitanti giovanotti, ma la certezza dei numeri non lasciava adito a dubbi. Un’altra bella casa ampia  e soleggiata che nei fatti si dimostrava altro. Ancora merda sulle pareti, dal punto di vista del buon Peter Steele, non esattamente l’uomo più aperto verso quella che nella sua America chiamano Diversity.

Ecco, guardando al panorama musicale attuale, e a quel che a breve accadrà, perché non manca molto che Sfera Ebbasta capirà quanto ha in realtà fatto col multiplatino Rockstar o a che Zucchero busserà cassa per incidere il suo prossimo album, mi sembra che il quadro sia esattamente quello tratteggiato fin qui. Un quadro a metà strada tra il buco del culo della cover di The origin of the feces e lo sguardo atterrito di Peter Steele di fronte al centesimo ragazzo che gli chiede di autografare la sua foto a uccello di fuori su PlayGirl.

Che ruolo in questa storia abbiano i vari Jacopo Pesce, prototipo di chi ha fatto una carriera su quei numeri fasulli, discografico in ascesa nel momento esatto in cui la discografia muore, è presto detta. Vi regalo un aiutino: non è quello che ha posato per il paginone centrale di PlayGirl, evidentemente.