Nel chiacchierare con Cannella per “Siamo stati l’America” scopriamo di disturbarlo mentre sta addentando il suo pranzo nell’unico momento della giornata in cui cerca l’apporto proteico e vitaminico, considerata la frenetica attività che investe un musicista all’uscita del nuovo disco. Nel caso di Cannella, al secolo Enrico Fiore, si tratta addirittura del suo primo album, di cui avevamo parlato quando era uscito il singolo Spazzolino.
“Siamo stati l’America” è un disco intimo, che arriva al culmine di un percorso durante il quale Cannella ha tentato la strada di Sanremo e ha portato avanti con convinzione il suo sogno: arrivare ad un disco creato a sua immagine e somiglianza, senza troppi compromessi ricercati dal mercato e senza troppe influenze. Enrico Fiore ha molto da raccontare, e tutto è elegantemente attinto dal suo vissuto, un’esistenza portata in studio come se fosse il pranzo al sacco e dispensata in ogni traccia.
L’intervista a Cannella per “Siamo stati l’America” è una conversazione tra persone ansiose e soggette all’attacco di panico, e dall’altra parte del telefono troviamo una persona aperta all’autoanalisi e alla nudità emozionale, capace di descrivere nei dettagli tutti i sentimenti che fanno parte del disco senza tralasciare alcun dettaglio.
L’America ricorreva nelle prime produzioni di Gianna Nannini, la abbiamo poi riscoperta in Sex dei Negrita e l’ispiratissimo Daniele Groff cantava: “Sei tu la mia isola, sei tu la mia America”. Qual è l’America di Cannella?
La mia America è nettamente diversa dal concetto che volevano esprimere gli artisti che abbiamo citato. La mia America ha un’accezione più negativa. Ho scelto il titolo “Siamo stati l’America” perché l’America è il paese guerrafondaio per eccellenza, loro sono i più bravi a fare la guerra, quindi io ho cantato di una guerra, fondamentalmente una guerra d’amore. Intendo proprio dire: “Siamo stati devastanti, a farci la guerra”. Per sintetizzare al meglio posso citare la frase del ritornello: “Io ti auguro di cuore una guerra alla pari di quella che hai fatto con me: siamo stati l’America”. È ovvio che, nel mio caso, si parla d’amore e dunque la guerra può essere anche positiva, perché la guerra d’amore è fatta anche di un insieme di situazioni che, in sommatoria, portano al devasto. Secondo la mia esperienza le storie d’amore finiscono sempre male. Da una relazione usciamo sempre feriti, ma se alla fine le auguro una guerra uguale a quella combattuta con me significa che la nostra guerra ci ha comunque dato tanto.
L’album è un prontuario di situazioni intime, qual è la canzone che senti più tua?
In realtà le sento tutte mie, perché sono tutti pezzi di vita. Posso parlare, però, di quella che racchiude più concetti e più situazioni, più emozioni descritte che mi catapultano in quell’esatto momento in cui le ho vissute, ed è Venerdì. Venerdì è la canzone che ho scritto in un lasso di tempo prolungato. Di solito scrivo una canzone di getto, scelgo la strofa e il ritornello e nel giro di una settimana la chiudo o la cestino. Venerdì mi ha chiesto sei mesi di lavoro: spesso la lasciavo lì per metabolizzare e veramente comprende 6-7 mesi della mia vita sentimentale, famigliare e personale. Nel testo faccio riferimento al divorzio dei miei, arrivato poco dopo la fine della mia relazione, ma anche dell’incidente di mia sorella. Insomma, c’è veramente di tutto. Dunque sì, Venerdì è la canzone più descrittiva. Non è un caso se ho scelto di inserirla come brano di chiusura, perché infatti è un riassunto di una fetta importante della mia esistenza. La sua storia è particolare, inoltre, perché nel disco ho inserito la live version presente su YouTube, che ovviamente aveva registrato one-take. Successivamente ho scelto proprio la live version come brano di chiusura, perché era la versione più sincera.
Enrico, hai scoperto la musica a 7 anni. Oggi ti troviamo come un grande appassionato di brit-pop che tuttavia non rimane focalizzato su un solo genere. La tua è una continua ricerca?
Assolutamente sì. Io sono “malato” per le nuove influenze. Se non trovo qualcosa che mi ispiri arrivo a stare male. Dai 18 ai 23 anni ho passato il tempo ad ascoltare di tutto e così ho individuato ciò che mi piaceva di più. Ho fatto mente locale e adesso ho messo tutto in pratica. Diciamo chiaramente, poi, che l’avvento di Spotify ha reso molto più semplice la ricerca e soprattutto l’assimilazione della nuova musica, per fortuna.
“Rose rosse” racconta una ragazza che soffre di attacchi di panico. L’ansia può incanalare le scelte di un musicista?
Certamente. Io soffro di ansia da quando avevo 14 anni, e già da allora avevo seri problemi con l’ansia che mi avevano portato ad andare in terapia. Incanalare nella musica questi problemi, che specialmente in quella età non vengono condivisi dai tuoi coetanei, è stata come una seconda terapia. Dedicarmi alla musica e concentrarmici mentalmente ha creato degli stimoli in più e mi ha aiutato a crescere più in fretta, a trovare la giusta maturità per accettare la mia ansia. Dunque sì, col senno di poi dico che questi disturbi sono stati fondamentali per il mio percorso. Quando sono andato a cantare a Sanremo ho notato che l’ansia si può combattere, perché ho trovato quella sicurezza che non ha permesso al disturbo di prendere il controllo.
Qual è il tuo più grande sogno da artista?
Non mi sono mai prefissato degli obbiettivi. Non ho aspettative di grandezza. Fino a qualche mese fa il mio punto fisso era produrre un album che facesse al caso mio, e sono riuscito a farlo. Spero nei risultati, certo, e il fatto di ricevere già dei messaggi da parte di persone che mi ringraziano per aver raccontato ciò che è anche il loro vissuto è il massimo. Vorrei costruire tutto passo per passo, senza bruciare gli step.
Che progetti hai per l’estate?
Suonare, essenzialmente. Ora che è uscito il disco voglio portarlo sul palco, e soprattutto mi rendo conto di quanto sia importante la risposta che puoi ottenere dai live. Programmeremo delle date per l’estate e per l’autunno, il prima possibile. Il piacere dell’attesa e l’ansia per ciò che sarà mi riempiono di entusiasmo.
Dopo aver parlato con Cannella per “Siamo stati l’America”, le canzoni del disco hanno più forza e più senso, perché Enrico Fiore sa fotografare la sua emozione anche al di fuori dei brani che ascoltiamo.