L’indie-scussa novità dell’Inno di Mameli, la faccia originale di Amici al suo primo EP (recensione)

Tra lomografie sonore e beat elettronici, il cantautore siciliano ci presenta un disco che ha del potenziale, ma non troppo


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“Inno” di Mameli è l’EP d’esordio di Mario Castiglione, il cantautore che ha rivoluzionato il mondo di “Amici” di Maria De Filippi. Possiamo parlare di indie? Scomodare questa parola è cosa spontanea, ormai, in un 2019 costellato di Coez – con il quale troviamo qualche somiglianza – Motta, Colapesce e tanti altri, accomunati e dai testi estroversi e malinconici, e dalla simil-poesia delle loro liriche e dal loro strano modo di articolare e raccontare il quotidiano e l’amore, come ci insegna Gazzelle. Il gioco di parole, quando ci soffermiamo al titolo di “Inno” di Mameli, sorgono spontanei e scontati, ma sulla copertina dell’EP troviamo la tifoseria del Catania anziché un patriottico tricolore.

Mario ha firmato e composto tutti i suoi pezzi, e alla loro realizzazione ha contribuito anche quell’Ivan Rossi che ha lavorato con i Baustelle e i Thegiornalisti, ma il secondo nome vincente è quello di Alex Trecarichi, l’ingegnere del suono che ha firmato “Viva da morire” di Paola Turci, “Parole nuove” di Einar e “Popcorn” di Federica Carta. In 7 tracce, Mameli racconta il suo quotidiano e lo fa su basi synth-pop e atmosfere che spaziano tra la malinconica e cinica canzone d’amore (Ci vogliamo beneMilioni di cose)e il flusso di coscienza di chi vive la realtà di oggi (NetflixGelateria).

Ci vogliamo bene, un beat che svela un rhodes in continuo fermento, è il brano di apertura che disegna il rapporto tra due persone che non hanno prospettive, ma che si vogliono bene “come la musica commerciale”: «Ma adesso siamo al verde, quindi che facciamo? Ci vogliamo bene». Un tocco di vintage e tormento si irradiano da Limonare, che ha un beat apparentemente allegro ma che si colloca tra quelle lomografie soniche che si macchiano, purtroppo, di quell’ostentato slang giovanile nel tentativo di raccontare l’amore con il linguaggio “dei giovani”: «Dobbiamo limonare anche se è un po’ volgare, fino a prendere una congestione, in lingua originale».

Milioni di cose si apre con una graziosa chitarra acustica che si sposta su accordi di settima+ per accogliere un testo che corteggia una lei alla quale Mario chiede di restare “soli come dei monomi”. Se non fosse per l’eccesso di effetti scelti per la voce avremmo a che fare con una canzone pop genuina e old-school. Probabilmente, però, l’amore non è corrisposto, perché Mameli lotta contro l’ossessione di cercare il nome di lei tra tante persone, dislocato virtualmente tra i profili social e terribilmente solo.

Pianoforte, ride e percussioni riverberate fanno da quartier generale a Netflix, dove il servizio di streaming più popolare al mondo diventa un pretesto per non pensare a lei. La canzone è altamente radiofonica, e la malinconia 2.0 dei giovani artisti non volge lo sguardo alle metafore, bensì a un puzzle tra i tratti più distintivi del mondo contemporaneo. Non sapremo mai se quel synth in lontananza sia un tributo a Stranger Things, ma ci piace pensarlo.

Lentiggini, spiritosa nell’arrangiamento – un pianoforte che scandisce il tempo e un riff di fiati divertente nel finale – racconta l’incontro con una fiamma dei tempi delle medie con la quale è il caso di riprovarci: «Ho visto tanti posti ma sei tu la mia città, altro che Google Maps», e forse Gelateria è quel due di picche che dopo una rima del genere potrebbe arrivare. Lei è tra i gusti che lui non ha mai assaggiato, nonostante i diversi inviti a consumare un gelato insieme. Ritroviamo motivazione con Casa di carta, un levare di chitarra che dà un po’ di groove a un beat altrimenti troppo monotono. Il brano parla di una casa di carta, la sua, che tuttavia non cade giù, e potremmo trovare un riferimento alla zona di comfort che talvolta ci distrugge anziché proteggerci.

Cosa non ci piace di “Inno” di Mameli? Mameli ha potenziale, ma si perde nel maldestro allineamento alle tendenze musicali di questo tempo. Una fra tutte è quella di aggiungere una “a” alle parole che terminano per “e”: «Siamo pure al “verdea”; Chiamami per “nomea”; A che ora devi “uscirea”, che nel frattempo di porto con “mea”?». Tra le ultime uscite, troviamo questa peculiarità in Achille Lauro, ma tutti ricordiamo che Piero Pelù divenne la parodia di se stesso quando negli anni ’90 incendiava gli stadi con i dischi più commerciali dei Litfiba, proprio con quella pronuncia particolare.

Interessanti i pezzi Ci vogliamo beneUn milione di coseCasa di carta, mentre per il resto del disco troviamo tanti tentativi e poco materiale che faccia davvero da farcitura. “Inno” di Mameli, tuttavia, è il primo EP con il quale il cantautore catanese si affaccia al mondo del mainstream che, oggi come oggi, può divorarti se non osservi certe regole non scritte, ma può accoglierti se sei interessante: Mameli è interessante, ma si lascia ancora divorare.