Daniele Silvestri con La terra Sotto i Piedi ci offre un lavoro maturo e riempie di gioia per il risultato finale

Ringrazio Daniele Silvestri per il suo nuovo album e per avermi fatto finalmente guarire dalla Sindrome di Rockerilla.

La Terra Sotto i Piedi

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Prologo a recensione di La Terra Sotto i Piedi. Esattamente venticinque anni fa ho vissuto un anno particolarmente intenso. Non solo io, a dire il vero, a breve lo vedremo, ma io in modo particolare. Perché all’epoca, parliamo del 1994, avevo venticinque anni, e perché ho fatto il servizio civile in un dormitorio per senza fissa dimora in Ancona, città di frontiera, porto più prossimo all’ex Jugoslavia, proprio nel bel mezzo della guerra dei Balcani, quella che porterà la Jugoslavia a diventare la ex Jugoslavia, perché ero un giovane punk anarchico, di quelli che guardavano ai partigiani con rispetto, passandoci ore e ore a parlare di monti e di fucili, proprio nel momento in cui Silvio Berlusconi portava la destra di Fini al governo e in cui Kurt Cobain sceglieva la scorciatoia di spararsi un colpo in testa piuttosto che bruciare lentamente.

Insomma, un periodino niente male.

Periodino che ho raccontato, o provato a raccontare, nei miei primi tre romanzi, “Questa volta il fuoco”, in cui parlavo del me appassionato di politica, “Anime @ Losanghe”, in cui parlavo del me punkettaro, e “Una notte lunga abbastanza”, in cui parlavo della mia esperienza di obiettore in un dormitorio, tre romanzi perché prima di scrivere di musica ero un letterato, immagino non faticherete a credermi, prossimamente in libreria in un unico tomo dal titolo, pensa l’originalità, 1994. Titolo a cui volevo aggiungere il sottotitolo “da un’idea di Stefano Accorsi”, ma suppongo avrebbe magari anche fatto sorridere chi si fosse trovato il tomo tra le mani, ma non certo sortito l’effetto di farlo sfogliare con curiosità, come coi libri dovrebbe sempre accadere.

In quel periodo, quando cioè pensavo la mia vita si sarebbe equamente divisa tra politica e musica, o musica e politica, a seconda dei giorni, ho sviluppato una teoria che aveva trovato un certo riscontro nella mia compagnia, compagnia che è suo malgrado finita in quei tre romanzi totalmente autobiografici (ma che io tenda all’autobiografismo, magari, vi sarà divenuto familiare, suppongo), e che anche per quella non è più la mia compagnia. Si chiamava La Sindrome di Rockerilla, e con nomi diversi è una teoria che col tempo ho trovato in discorsi anche fatti da quelli che poi sono diventati miei colleghi, cioè gente che scrive di musica, che lo faccia come giornalisti o come critici.

La Sindrome di Rockerilla, in sostanza, prevede che se sei un grande appassionato di musica, di quelli che ascoltano generi considerati di nicchia, difficili da reperire, parliamo di un’epoca pre-internet, e io i dischi di nicchia me li dovevo andare a prendere a Bologna, dove studiavo Storia da studente fuoricorso e fuorisede, al Disco D’Oro di via Galliera, erano i giorni de L’isola nel Kantiere cantata da Silvia Ballestra, per intendersi, ecco, se sei un grande appassionato di musica di nicchia e ti capita di scoprire un gruppo che ritiene seminale, termine che in effetti non credo abbia avuto un suo utilizzo fuori dai giornali musicali in quel preciso periodo storico, se sei un grande appassionato di musica di nicchia e ti capita di scoprire un gruppo che ritieni seminale, nel momento in cui questo gruppo dovesse incontrare non dico il successo, ma anche l’attenzione di qualcosa di più di un condominio, per te, grande appassionato di musica di nicchia che lo hai scoperto quando era semplicemente seminale, di colpo, farà di colpo perentoriamente e definitivamente cagare. Di più, di colpo farà cagare anche tutto quello che, finché il gruppo da te scoperto era ancora solo seminale ti aveva così folgorato, entusiasmato.

Un processo ineluttabile, per dirla con Thanos, che col tempo ha colpito tante realtà, dagli U2, cui di colpo si è preferito i Virgin Prunes, ai R.E.M., considerati da un certo punto in poi assai più scarsi dei Guadalcanal Diary. E così via.

La Sindorme di Rockerilla, che prendeva il nome da un giornale, credo ancora oggi in edicola, che seguiva tutte le nicchie in ambito rock, dando a questo termine la valenza più underground che potete, dispensando disprezzo per il successo di chiunque riuscisse a sfondare, anche solo in una college radio, la maledizione che colpiva chiunque di colpo non fosse più relegato nei sogni erotici solo di un minuscolo manipolo di nerd.

Ora, siccome io con la Sindrome di Rockerilla, che mi vanto di aver decifrato e così nominato per primo, nel romanzo Anime @ Losanghe, A.D. 2001, ho avuto a lungo a che fare, probabilmente riuscendo semplicemente a fermarne il decorso, non certo a eliminarla, come certe malattie croniche, mi trovo ora a fare i conti con quella che sarebbe dovuta essere la citazione colta da cui partire per parlarvi del nuovo bellissimo album di Daniele Silvestri, La terra sotto i piedi.

Volevo citare Simon Reynolds e la sua Retromania. Solo che Simon Reynolds è, nel mio immaginario, stato colpito dalla Sindrome di Rockerilla. Non che mi faccia cagare quel che scrive, figuriamoci, lo adoro e penso sia non solo uno dei più brillanti critici musicali in attività, ma anche un’ottima penna, aspetti che spesso non vanno di pari passo. Ma ho la sensazione che citarlo sia diventato davvero di moda, e quando sento la parola moda, scusatemi tanto, ma torno quello che ascoltava i Fugazi e i Black Flag mentre tutti ascoltavano i Guns ‘N Roses, non ce la posso fare, mi scatta la Sindrome di Rockerilla.

Così non posso parlare di nostalgia, non almeno nei termini in cui ne parla, ben più che esaustivamente, Simon Reynolds, ma posso invece associare la Sindrome di Rockerilla a Daniele Silvestri, parlando di un mio coetaneo che l’ha definitivamente debellata. Tocca solo capire come.

Ricomincio.

Esce un nuovo album di Daniele Silvestri, La Terra Sotto i Piedi, e questa già sarebbe una notizia per cui alzarsi da dove siamo seduti, se siamo seduti, darci sonore pacche reciproche sulle spalle, abbracciarci e festeggiare. Stavolta, come anche tutte le altre, c’è in più l’optional che di un gran bell’album si tratta, di quelli che finiscono in heavy rotation, permettetemi un termine vintage, poi capirete il perché, e lì finiscono per mese e mesi, forse anni.

Il fatto è che La terra sotto i piedi, questo il titolo scelto al photofinish, dopo che per settimane era stato ipotizzato dallo stesso Daniele Scusate se non piango, è un lavoro maturo, e il lavoro maturo di un cantautore maturo non può che riempirci di gioia.

Nello specifico, però, il lavoro in questione, La terra sotto i piedi, ripeto, riempie di gioia per il risultato finale, per la bellezza che le canzoni irradiano di loro al loro ascolto, ma non è esattamente un invito a sganasciarsi dalle risate, caratteristica che a volte le canzoni di Daniele Silvestri hanno avuto.

Daniele Silvestri, infatti, superati i cinquanta, e chi scrive è lì, a due metri dal traguardo, sembra essere diventato un pochino più malinconico di quanto già non sia sempre stato. Nostalgia, avete presente?

Sì, perché a pensarci bene le sue canzoni, anche quelle da cantare un po’ incazzati come L’uomo col megafono o Cohiba, per citare due classici, fino all’ultima Argentovivo, sono sempre state un po’ malinconiche, disilluse, disincantate. Certo, il tutto era mascherato da quel massimalismo in musica che è la cifra principale di Silvestri, il nostro John Barth, uno che maneggia così bene gli stili e le parole da giocarci anche solo per il gusto di giocarci, questo fanno i massimalisti, e lo dice uno che, si sarà notato, nel massimalismo ci sguazza con lo stesso piacere di un porco che si rotola in una pozzanghera.

Malinconico, ecco forse è questa la parola che più lo caratterizza, e da massimalista aver collocato la parola “malinconico” dopo aver usato la metafora del porco nella pozzanghera è un modo, dichiarato, di provocare spiazzamento, seppur così, su due piedi, senza troppi sforzi, malincolinico, dicevo, parola che per altro sembra perfettamente adattabile alla sua fisiognomica, a tratti sorniona, certo, ironica, ma sempre velata di quel non so che di malinconico.

Daniele è malinconico, questo ci raccontano le tracce di questo album, come forse ci racconta da venticinque anni, perché mentre io cazzeggiavo sulla mia teoria riguardo alla Sindrome di Rockerilla, lui, di solo un anno più grande di me tirava fuori il suo primo capolavoro, omonimo. Un album con l’incipit migliore di qualsiasi carriera: “Cazzo, sono un idiota”, geniale. Un album intriso di ironia, certo, di energia, ma pervaso in ogni nota e ogni parola, già allora, di malinconia.

Quella malinconia lì, di chi ha in fondo già capito a venticinque anni, tanti ne aveva quando ha scritto le canzoni del suo esordio, che la nostra generazione se la sarebbe comunque presa nel culo, anche allora che Berlusconi poteva sembrare una meteora, la destra al governo un abbaglio momentaneo e tutto il resto a seguire neanche il sogno acido di un regista di fantascienza.

Ecco, io che quell’album l’ho ascoltato allora, grazie al mio amico Giacomo che me lo ha passato, non ho poi provato la Sindrome di Rockerilla nei suoi confronti quando un anno dopo è passato da Sanremo con L’uomo col megafono e ha trovato il grande successo con l’ironica ballad Le cose che abbiamo in comune (ho sempre trovato geniale la frase “quando io parlo, tu parli”), perché ho invece avuto la sensazione di aver semplicemente trovato uno che vivesse sulla sua pelle le mie stesse sensazioni, vissute di prima mano. Così è successo negli anni, certo trovando alcune canzoni più vicine al mio modo di sentire, altre meno. Per dire, non mi ha mai entusiasmato più di tanto il suo lato scherzoso, tranne forse in Testardo, comprese le megahit come Salirò, ma sempre di amore a distanza si è trattato. Solo che ora arriva questo nuovo lavoro, alle soglie dei miei cinquant’anni, e Daniele, ancora una volta, si trova a dire cose che anche io penso e a dirle con parole che io, fossi Daniele, e per sua fortuna non lo sono, avrei usato.

Parole sue, certo, ma anche mie. Argentovivo, per dire, e per tornare a dirlo dopo Sanremo, è una canzone che mi ha letteralmente sconvolto, perché dice cose che ho visto e vissuto, e lo dice benissimo, strappandomi le parole da un angolo della testa dove ancora non le avevo trovate, come del resto le canzoni dovrebbero sempre saper fare. Per altro coinvolgendo Rancore, artista che amo da subito, dove per subito intendo dal momento in cui lui, Tarerk, è diventato Rancore, dodici e passa anni fa.

Un picco, pensavo, che non avrebbe potuto trovare eguali in un album, ma che invece, e che cazzo, ha trovato altri picchi altrettanto alti e profondi al tempo stesso (provateci voi a essere profondi e alti nello stesso tempo). Picchi talmente alti, lo dico sapendo, magari, di ferire chi ha lavorato a cercare e trovare i suoni giusti per ogni singola canzone, con quella varietà cui i dischi di Daniele Silvestri ci hanno sempre abituato, abituato bene, si intende, e quel “chi” è evidentemente lo stesso Daniele Silvestri, picchi talmente alti, dicevo, che fanno apparire quel mix di suoni, dal pop elettronico ai brani più classicamente cantautorali, a tratti anche molto più classicamente del solito, con delle virate su quello strano modo di rappare tipico di Daniele stesso, si pensi appunto a Argentovivo, qualcosa di quasi superfluo.

Perché se uno pensa a un brano come Qualcosa cambia, dove le parole sembrano non coincidere mai, nelle intenzioni, con la musica, fatto che ingenera quello spiazzamento che, è evidente, si voleva raggiungere, se si ripensa a quel capolavoro di Argentovivo, che eleva il disturbo dell’attenzione a vero e proprio male delle nuove generazioni, con tanto di voce data al rancore, la voce di Rancore appunto, di chi di questo disturbo è affetto, se si pensa a un rap geniale come il dinoccolato Blitz Gerontoiatrico, che chiude con pochi minuti i conti da troppo tempo in sospeso da parte di tutti noi con la trap e tutta quella merda lì, se si pensa a un brano quasi gucciniano come Concime, semplice e complessa al tempo stesso (si veda a riguardo la parentesi sopra), se si pensa a un acquerello come La vita splendida del capitano, se si pensa a una polaroid di quelle piccole che usano oggi, ma anche così definite come le polaroid di oggi come Tempi modesti, che lo vede accompagnato da un altro bel talento come Shorty, se si pensa a un pezzo volendo anche cinico come Complimenti ignoranti, insomma, se si pensa alla favola romanticamente malinconica de Il principe di fango (Solo un lieto fine), se si pensa quasi a tutta la tracklist, con quella perla di Scusate se non piango, canzone in cui la disillusione di chi ci ha provato diventa manifesto di una ricerca di felicità, poi, beh, che gli si vuole dire a Daniele Silvestri?

Io personalmente gli dico grazie, grazie di tutto, di questi venticinque anni e anche di aver mandato a puttane la Sindrome di Rockerilla.