Nesli non viene in pace e non lo deve assolutamente fare

In un momento di banalità dilagante come questo, un artista come Nesli andrebbe tutelato, protetto, come un panda in via di estinzione


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Tutte le cose belle finiscono.

Senti un cantante dire una cosa del genere dal palco sul quale sta tenendo un concerto e ti fai delle domande.

Tipo: perché in genere i cantanti cercano di essere compiacenti nei confronti del proprio pubblico? Perché tendono a dire loro cose rassicuranti, consolatorie? Perché, poi, in effetti, questi cantanti finiscono per stilare qualcosa di più simile a una foto ritoccata con Photoshop più che un’istantanea fatta al volo col cellulare, magari anche mossa, ma in grado di cogliere l’attimo, di dirti: eccoti, sei qui?

Tutte le cose belle finiscono.

Moriamo anche tutti, prima o poi. Succede.

Ma al momento siamo qui, in questa valle di lacrime, e ascoltare le canzoni di Nesli, è lui l’artista che proprio ieri sera ha così salutato il suo pubblico, presentando Maldido, canzone con la quale ha chiuso il concerto, prima degli immancabili bis, ecco, ascoltare le canzoni di Nesli ci regala, cosa rarissima oggi, un momento di fulminante full immersion nella testa di una generazione, quella più giovane della mia, uso una categoria passata, intendiamoci, che altrimenti ci sarebbe negata. Ci sarebbe sicuramente negata dall’ascolto della musica che quella generazione, quella dei giovanissimi, al momento ha eletto a sua colonna sonora, la trap o l’itpop, perché per noi cinquantenni incomprensibile concettualmente: troppo elementare nel lessico, troppo sciatta nell’esposizione e nella composizione.

Nesli è in parte responsabile di tutto questo. È stato un rapper di buon successo, contribuendo in maniera fondamentale al lancio di suo fratello, che per ragionimi meramente estetiche mi guarderò bene dal citare in questo articolo, e a un certo punto ha consapevolmente o inconsapevolmente virato verso il cantautorato. Pensate a quanti oggi gridano al miracolo per un Coez, per un Carl Brave, ma anche per i vari Irama, Ultimo e compagnia più o meno cantante, ecco, tutti questi sono fratelli minori di Nesli, il primo rapper-cantautore, oggi, immagino, solo cantautore. È stato lui il primo a aprire quella strada, lui, marchigiano come chi scrive fino al midollo, quello che poi ha ovviamente optato per una radicalità quasi talebana, niente più rap, ma una forma canzone che oggi risponde al solo genere “alla Nesli”. Canzoni fondamentalmente senza grandi consolazioni, cupe, con strofe poetiche, che ti strattonano mentre cerchi di scappare via e ti sbattono in faccia chi sei, e ritornelli ariosi, a loro modo sì aperti, uno spiraglio di luce dal lucernario, anche se fuori piove. Ritornelli che si ripetono decine e decine di volta per canzone, all’americana, e che finiscono per fare di Nesli un cantautore, sì, ma anche una perfetta macchina da pop. Un pop poetico e cupo, lo ripeto, ma fondamentalmente con delle ottime possibilità radiofoniche.

Il concerto si apre con la canzone che regala il titolo al suo nuovo album, terzo della trilogia cantautorale prodotta da Brando, Vengo in pace. Non viene ovviamente in pace, Nesli, non fidatevi di lui. Il fatto che canti, come poi farà in altri momenti topici del concerto, con un cappuccio calato in testa, a coprirgli il volto, dice molto, se non tutto. Vengo in pace, ma in realtà Nesli sembra essere sempre in guerra col mondo, e del resto non potrebbe che essere così, se solo si ha una minima capacità di analizzare lo zeitgeist. Il pubblico, giovane ma non adolescenziale, canta in coro ogni singola canzone, anche le nuove, in questo strano e originale mix tra elettronica e rock’n’roll, con le macchine che si fondono con le chitarre elettriche, basso e batteria a fuor muovere piedi e culi.

Non credo sia un segreto che nutro per Nesli una particolare simpatia, simpatia dettata dalla stima per il suo songwriting, e anche per quell’attitudine anarchica tipica della mia terra, quel fottersene il cazzo di tutto e tutti, dove per tutto e tutti si intende la macchina, la struttura, quel che il buon senso, che spesso buono non è, vorrebbe farci pensare.

Come credo non sia un segreto, l’ho scritto a più riprese, andandomi anche a prendere responsabilità che forse non ho, sicuramente non del tutto, un giorno ve la racconterò davvero tutta questa storia, la mia stima per Alice Paba.

Ve la ricordate: vincitrice di The Voice nel 2016, da me supportata in ogni luogo  e in ogni lago, andò poi a Sanremo nel 2017, proprio in coppia con Nesli, col brano Do retta a te, canzone d’amore tra malati di mente, come l’ha presentata lo stesso Nesli. Un’esperienza tragica, perché il brano trovò forte opposizione in Sala Stampa e non solo, di questo appunto vi racconterò prima o poi, e che da quel momento è scomparso dal repertorio di Nesli. Lei, Alice Paba, pubblicò anche un album, sempre con Brando come produttore, e sempre con Universal, segnatevi bene questo nome, come etichetta discografica: Se fossi un angelo. Anche qui, giochiamo a carte scoperte, nel suddetto album c’era un brano che portava anche la mia firma, Immobile, quindi la mia stima potrebbe essere confusa con un conflitto di interessi che in realtà non esiste, perché se uno fa il mio mestiere e finisce per decidere di firmare col proprio nome un brano è evidente che lo fa non tanto per narcisismo, ho molti modi per esercitarlo serenamente, quello, ma per esternare appunto una stima profonda, come una bolla di accompagnamento. Immobile, si chiamava quel brano, e quello è quel che è successo alla carriera di Alice da quel momento in poi, si è immobilizzata. Inspiegabilmente, perché il suo talento è cristallino, impossibile non coglierlo, e la sua giovane età, ventidue anni oggi, è una sorta di trampolino dal quale non si può che lanciarsi per spiccare il volo.

Ecco, ieri sera, al primo bis, per la prima volta da quel febbraio 2017, quando i due si esibirono, poi eliminati da Sala Stampa e televoto, Nesli ha ospitato Alice Paba e i due hanno duettato con Do retta a te in una versione molto emozionante. Lo è stato sicuramente per me, che in qualche modo mi sento un parente lontano di entrambi, ma lo era anche per loro due, lo si percepiva apertamente, e anche per chi ha avuto la fortuna di assistere al concerto dell’Alcatraz. Un modo bello per fare i conti col proprio passato prossimo, per Nesli e anche per la stessa Alice, magari un buon auspicio per Alice di un prossimo ritorno sulle scene, perché quello è il posto in cui deve muoversi, in scena.

Tornando al concerto, ma soprattutto al nuovo album, Vengo in pace, in un momento di banalità dilagante come questo, con artisti che sembrano inseguire solo un piccolo slogan su cui costruire quella che qualcuno ottimisticamente si ostina a chiamare canzone, un artista come Nesli andrebbe tutelato, protetto, come un panda in via di estinzione. Questo in teoria. Essendo però Nesli l’anarchico marchigiano di cui sopra, questa più che una speranza è una certezza, non posso che auspicare a un suo irriverente attraversare le scene, sempre quelle, con il suo sguardo dark e apocalittico, in barba ai ragionamenti fatti a tavolino e alle cagate che un qualsiasi A&R potrebbe pensare di cucirgli addosso tanto per fare l’occhiolino al pubblico di quei tanti nessuno che gli devono molto, se non tutto.

Non viene in pace, Nesli. Non lo deve assolutamente fare. Lancia le sue molotov emotive sul pubblico, che come tanti bonzi sembra felice di lasciarsi avvolgere dalle fiamme. Tanto tutte le cose belle finiscono, tanto vale farlo spettacolarmente.