Avevo deciso di non occuparmene.
Già faccio fatica, da critico musicale, a dover scrivere prevalentemente di sistema invece che di canzoni, costretto a questo da una situazione generale che relega queste ultime in un angolo, proprio per una serie di storture talmente evidenti e talmente non raccontate, da spingermi a farmi cassa di risonanza per chi ambirebbe a uno show business mosso dai meriti invece che dalle solite “connessioni amicali”. Già fatico, da critico musicale, a dover scrivere prevalentemente, quando scrivo di musica, di album che in un mondo giusto neanche dovrei sapere esistano, ma questo è quello che passa il convento, laddove per convento si intende il mainstream. Io che scrivo per riviste generaliste, non certo per fanzine o giornali di settore.
Ma visto che ieri sera sul Nove è andato in onda la prima parte di Leaving Neverland, con grande rilievo sui social, direi che qualche parolina a riguardo è il caso di dirla. Non tanto e non solo per specificare come io la pensi riguardo i casi di giudiziaria che finiscono sul tavolo del pop, quanto perché questo documentario sta evidentemente influendo sullo show business, viste le tante censure post mortem che Michale Jackson e la sua musica stanno trovandosi addosso.
Allora, la storia la saprete tutti. Michael Jackson è stato accusato, in vita, di molestie ai danni di minori, quindi di pedofilia. Ci sono stati processi, dai quali Michale Jackson è uscito assolto. Processi sui quali, va anche detto, gravano dubbi, di qui suppongo l’idea di farci su un documentario, perché quando un multimiliardario si trova sotto processo ha dalla sua delle carte importanti da giocarsi per uscirne bene, dai bravi avvocati al conto in banca.
Sia come sia Michael Jackson viene dichiarato innocente.
Poi Michael Jackson muore, decisamente troppo giovane.
Le voci continuano a girare, ma spesso è una faccenda di fan e di haters, con quello spirito idiota da ultras che troppe volte macchia la musica.
Adesso, dopo la tempesta #MeToo esce Leaving Neverland, che sostanzialmente mette in campo una sola campana, quella di due uomini, bambini all’epoca dei fatti, che dichiarano di essere stati molestati da MJ quando lo frequentavano e erano piccoli. A loro supporto, e qui forse sta la parte più agghiacciante del documentario, le madri, anche loro serenamente in video a raccontare di come abbiano fondamentalmente concesso i propri figli a quello che esce da questo documentario come un mostro psicolabile.
Ora, premesso che i processi non si devono e non si possono fare in televisione o al cinema, e premesso che i processi non si possono fare sentendo solo una campana, senza quindi dare modo a chi viene accusato, o a chi ne difende la memoria, di dire la propria, quello che lascia basiti, in questo caso, è una morbosità cinica e fredda nel descrivere proprio le scene di molestia. Il tutto amplificato da toni, immagino dovuti al doppiaggio in italiano, quantomai carichi e teatrali, i due uomini, di cui neanche voglio citare il nome, perché credo che questa sia una vicenda che non meriterebbe attenzione, non fosse ormai diventata così gigantesca, in contumacia, si dilungano nel descrivere scene di loro bambini in intimità malata con MJ. Alternati a interviste con donne che hanno ritenuto, dato che i fatti narrati siano veri e non frutto di un’invenzione, di lasciare che tutto ciò accadesse. Roba da TSO, perché se fosse vero, e sottolineo se, Michael Jackson sarebbe un pedofilo, ma le madri dei bambini dovrebbero essere accusati di sfruttamento della prostituzione minorile, perché è evidente un vantaggio economico, oltre che narcisistico, che la frequentazione costante con MJ ha portato a loro e alle loro famiglie.
Poi, sia chiaro, nel delirio per cui un processo mediatico, questo è Leaving Neverland, rafforzato dal chiaro malessere creato dalle aberrazioni emerse grazie al MeToo, lascia basiti anche la difesa d’ufficio di fan e addetti ai lavori che tendono a giustificare, sempre fossero veri, certi comportamenti in quanto MJ sarebbe stato sicuramente turbato psicologicamente. Come dire, era strano, mica era colpa sua.
Detto questo, e qui il mio essere uomo che si occupa del comparto musicale rende queste mie parole magari un po’ più sensate, premesso che non sono mai riuscito a distinguere tra l’uomo e l’artista, e non parlo nello specifico di MJ, ma in generale, non riesco a capire il senso di questa censura che vedrebbe le canzoni di MJ sparire dalle rotazioni radiofoniche, dalle colonne sonore dei film e addirittura dai campioni usati per certe canzoni da popstar mondiali. Non lo capisco perché Leaving Neverland non è un processo, ma un film, che porta avanti una tesi di parte. Le voci su Michael Jackson ci sono da decenni, da quando, cioè, ci furono i processi. Perché non censurarlo allora, e perché farlo oggi? Lungi da me propinare ora la lista di artisti di grandissimo talento e successo che, guardando alla vita privata, meriterebbero in caso una sorte simile, perché la musica rock e pop è fatta prevalentemente da gente che, stando alle biografie, meriterebbe di essere internata, ma questo clamore per un documentario, per altro anche piuttosto brutto lascia sgomenti, così come le difese dei fan che si appellano non alla sua innocenza, ma al suo essere Michael Jackson.
Non vedrò la seconda parte del documentario, stasera. Non per autocensura, ma perché credo che ci si debba allontanare dal brutto cercando il bello. Non farò certo il gesto di andarmi per contro a ascoltare Thriller o Bad, non voglio entrare in questa faida. Mi limiterò a pensare che la musica è spesso superiore a chi la scrive e a chi la interpreta, destinata a rimanere ben più a lungo di chi la scrive e di chi la interpreta. Non sarà mica un caso…
Per lo stesso motivo non ho guardato né la prima né la seconda puntata: sapevo che era brutto, semplicemente. Tendenzioso, distorto. E chi ha voglia di procurarsi sensazioni sgradevoli, di percepire la falsità ? Non sono una fan ma conosco il caso MJ. Le torbide intenzioni, da quel che vedo io, sono quelle di chi ha costruito questo brutto prodotto, il cui odore di marcio già mi arriva, anche senza aprire la confezione. Domanda: chi ci guadagna dall’acquisto del prodotto? Trovata la risposta, capito il trucchetto. Consumatori, dov’è finito il vostro spirito critico?