La recensione di Start di Ligabue, il disco del ritorno del rocker di Correggio alla ricerca di leggerezza

"È tornato il Liga", gridano i fan con entusiasmo dopo aver ascoltato le nuove canzoni che non cedono a giri di parole


INTERAZIONI: 602

Chi si aspettava un ritorno del rocker di Coreggio alle sonorità da stadio e ai fuochi d’artificio non rimarrà deluso: “Start” di Ligabue si schianta su una platea di braccia protese verso il cielo, striscioni e ritornelli cantati a squarciagola. I fan sono già deliranti ed entusiasti: «Liga è tornato», ed è vero. La sua voce ha letteralmente la sindrome di Peter Pan, perché ascoltare un suo disco degli anni ’90 regge la comparison con questo ultimo disco sul piano del timbro: la voce di Luciano rimane la stessa e la differenza cronologica è resa solamente nei suoni, paralleli all’evoluzione tecnologica degli strumenti e del lavoro di aggiornamento degli arrangiatori.

Lo stesso rocker di Correggio lo ha precisato: «È un album che ha quell’urgenza del raccontare che lo avvicina ai miei primi dischi, ma è anche positivo, essenziale e con pochi giri di parole», e difatti se qualcuno si aspetta che “Start” di Ligabue si collochi tra gli scaffali etichettati con “Album della maturazione artistica” o “Disco della nuova personalità” rimarrà deluso. Il disco, in poche parole, è il classico lavoro di Luciano, le classiche tracce che schiacciano il pubblico all’interno dello stadio e fanno riempire le agendine di frasi e citazioni. Ligabue non cercava la novità ma l’essenzialità, soprattutto nei testi: scordiamoci di ritrovare la straziante poesia di Piccola stella senza cielo o la bellezza delle parole di Sogni di rock’n’roll, perché il registro ancora più intelligibile delle liriche scelte nelle dieci tracce che compongono l’album rasenta la scala di grigio, ma non quella scelta dal manager Claudio Maioli per la copertina. La scala di grigio dei testi è più una desaturazione.

“Start” di Ligabue è stato prodotto da Federico Nardelli, lo stesso che ha prodotto il brano Nero di Gazzelle, ed è stato anticipato dai singoli Luci d’America Certe donne brillano, quest’ultimo lanciato l’8 marzo in occasione dell’uscita dell’album e della Giornata Internazionale della Donna. Il primo, Luci d’America, a metà tra il malinconico e il celebrativo, è il classico pezzo radiofonico del rocker di Correggio, ritmato con decisione su una batteria che comunica con il basso distorto. L’arrangiamento si enfatizza nel pre-ritornello con un riff di chitarra in clean che scala lungo le note e disegna quel “già sentito” che nei brani di Ligabue è spesso ricorrente.

Il risultato, se consideriamo anche un testo che crea la metafora del viaggio che diventa piacevole quando si ha una buona compagnia, è un brano pop-rock leggero e senza esplosioni. Certe donne brillano riprende le atmosfere sonore di Happy Hour anche nell’intro: Federico Poggipollini esegue il suo riff che tutti abbiamo contestato come troppo simile a Sweet child o’ mine dei Guns N Roses. La cassa continua della batteria potenzia l’apertura per poi dimezzarsi nella strofa, ma poi il brano diventa un invito a saltare. Il testo dipinge l’universo femminile in più ritratti: «Certe donne brillano, certe donne bastano, certe donne chiamano di notte, che ti piaccia oppure no».

La sorpresa, tuttavia, arriva dalla canzone di apertura di Polvere di stelle, che si apre come se fosse una ballad per poi lasciare spazio a un riff di chitarra che esplode quando intervengono gli altri strumenti, per poi presentare un classico brano pop-rock a metà tra la canzone d’amore e il manifesto dell’empatia: «Ho bisogno di te che hai bisogno di me, per cambiare il tuo mondo. Hai bisogno di me che ho bisogno di te, per cambiare il mio mondo». “Start” di Ligabue continua con Ancora noi, una sorta di Non è tempo per noi nella versione 2.0, un nuovo ticket da staccare nei tentativi dei brani che vogliono rappresentare un manifesto generazionale: «I miei amici sono tutti qui intorno e ci tocchiamo un’altra volta i bicchieri, ci diamo ancora addosso, ridiamo a più non posso». Ecco, quindi, quella voglia di leggerezza che lo stesso Luciano ha dichiarato di ricercare in tutte le interviste.

Latineggiante e deliberatamente pop è Quello che mi fa la guerra, uno scontro con il proprio io di fronte allo specchio: «Vive nella mia memoria, non va più via, ha nostalgia di quando dava più battaglia», e probabilmente Luciano confessa una sua perdita di mordente che gli dona consapevolezza, ma quando si allontana dallo specchio dell’autocritica arriva Mai dire mai, il brano che dedica alla moglie con una ballad positiva e non malinconica, ma soprattutto che riprende il monologo finale di Riko da “Made in Italy” con Stefano Accorsi. Alla sua metà riconosce il potere di riempire un vuoto, anche quando si tratta di parole: «Vorrei dirti di meglio, vorrei dirti di più, tutto quello che manca devi mettercelo tu, che festeggi ogni giorno come tu soltanto sai. Ogni giorno mi fai dire “mai dire mai”», e nel nome della canonica canzone del Liga il brano si chiude con l’assolo di chitarra, quello che fa esplodere il pubblico nella dimensione live tanto cara al rocker di Correggio.

Arrivare alla metà dell’ascolto di “Start” di Ligabue significa accettare di trovarsi di fronte a un album normalissimo. Come ogni nuovo disco le aspettative sono altissime, e Ligabue non le ha deluse se vogliamo parlare di coerenza: “Start” non si colloca in alto né in basso, perché sta nel mezzo. Non ha pretese, e lo stesso Luciano lo ha ammesso, ma non riporta nemmeno cadute di stile. Contiene, tuttavia, quel Vita, morte e miracoli che di sicuro è il picco più alto dell’album. Ballad acustica, intensa come Leggero nell’ossigeno di un flow che contiene frasi ben distanziate tra loro per lasciare spazio agli accordi: «… e fammi vedere la lacrima che non si tiene, e fammi vedere la lacrima che se ne va. Il tempo è soltanto un concetto, magari la bolla in cui siamo si allargherà». È un brano silenzioso, e il silenzio può fare davvero rumore se dosato con cura e musicato con arte. Ligabue, con Vita, morte e miracoli, fa proprio questo: pone il silenzio come chiave di lettura, una carezza che non ha bisogno di spiegazioni e che, per un attimo, lenisce un qualsivoglia dolore che l’ascoltatore ha bisogno di scacciare, anche solo per tre minuti.

La cattiva compagnia è un brano rock con percussioni elettroniche, dal beat quasi hip-hop e che sconfina, a gran sorpresa, in uno scatenato rock al limite del punk sul finale, quando la batteria digitale cede il posto alla batteria acustica suonata da Lenny, figlio di Luciano Ligabue e dichiarato appassionato di heavy metal. In termini di qualità dell’arrangiamento, La cattiva compagnia è il brano più interessante del disco. Io in questo mondo riapre il sipario sulle ballad, dopo il rumore de La cattiva compagniaIo in questo mondo è il racconto di un artista che si ritrova a guardarsi intorno, indeciso su tante posizioni ma che, per un attimo, guarda negli occhi di tutti: se tutti ci guardassimo meglio troveremmo un mondo migliore. Il messaggio, fortissimo e saggio, è diluito in quattro minuti di arpeggi e pad e mostra un cielo nuvoloso, pozzanghere che impediscono il riflesso troppo disturbato da visioni in controluce. Ligabue cammina lungo questa terra desolata, ma ha bisogno che qualcuno lo ascolti ancora nonostante abbia già dato tanto come uomo e come artista.

Riflessioni e ricordi ritornano nell’ultima traccia del disco, Il tempo davanti. La sua esistenza scorre come un filmato in 8mm nel quale rivede i suoi genitori e la sua infanzia. «Non abbiamo mai giocato tanto – dice Luciano – con il tempo lì davanti». Le chitarre acustiche fanno da tappeto con una batteria che non stravolge l’atmosfera, perché tutto ciò che il rocker di Correggio vuole dirci è che il futuro sarà sempre un’incognita, e non è necessario chiedersi come sarà il domani. Inutile, quindi, cercare di vivere in proiezione di un qualcosa che non possiamo conoscere. Malinconico e profondo, il pezzo si chiude con i riff che sfumano fino al silenzio.

Siamo lontani, forse, dal rock energico di Balliamo sul mondoLibera nos a malo, ma ciò che “Start” di Ligabue vuole comunicare è la gratitudine, come lo stesso rocker di Correggio dichiaraVanity Fair: «Non voglio diventare una sorta di mistico spirituale, ma so che essere grati non produce solo un effetto sulla persona a cui sei grato, ma produce un effetto su di te». Ci è riuscito, Luciano, con questo disco che si affaccia al 2019 con nuove sonorità e nuove forme di nudo artistico: poche metafore, tanti messaggi diretti. “Start” di Ligabue è la ritrovata leggerezza, pronta ad esplodere negli stadi a partire dal 14 giugno allo Stadio “San Nicola” di Bari.