La vita in un attimo, destini incrociati in un melodramma prevedibile (recensione)

Il creatore di “This is Us”, Daniel Fogelman, dirige un film corale che vuole essere un inno alla vita e alla forza dell’amore. Il risultato è una soap opera in cui s’incastrano innumerevoli tragedie. Il cast, Oscar Isaac, Antonio Banderas, Annette Bening, è sprecato.

La vita in un attimo

INTERAZIONI: 630

Il primo narratore de La vita in un attimo (Life Itself, 2018), Samuel Jackson, si tira fuori dal gioco dopo pochissimi minuti. E lo spettatore scopre che si trattava soltanto del parto mentale di Will (Oscar Isaac) che, abbandonato dalla moglie Abby (Olivia Wilde), sta cercando di rimettere insieme i pezzi parlandone con una psicoanalista (Annette Bening).

Anche questo però è solo un pezzo di un puzzle più vasto: perché la storia di Will e Abby si collega a quella della loro figlia triste e ribelle Dylan (Olivia Cooke) che a sua volta, per ragioni legate al caso e a quel capriccioso narratore che è la vita, s’intreccia a migliaia di chilometri di distanza con la vita d’un facoltoso proprietario terriero spagnolo (Antonio Banderas) e della famiglia di Javier (Sergio Peris-Mencheta), suo braccio destro nella fattoria.

La vita in un attimo del navigato Daniel Fogelman (ha creato This is Us e firmato le sceneggiature di Cars e Crazy, Stupid, Love) è una saga costruita come una tela di destini incrociati, che si stende lungo un arco temporale che comprende almeno tre generazioni, tenuta insieme dal filo tenue d’una canzone di Bob Dylan adorata da Abby (Make you feel my love), che collega New York alla Spagna e alle storie dei personaggi di volta in volta protagonisti dei capitoli in cui è suddiviso il racconto.

La vita in un attimo ha l’ambizione di comporre un affresco esemplare sul senso dell’esistenza, ma per farlo impiega un armamentario da soap opera di enfasi melodrammatica, amori purissimi e tragedie del destino cinico e baro che la metà basterebbe. In più lo sguardo che getta sul mondo è artefatto: le lontanissime New York e Andalusia condividono l’identica aria improbabile di scenari da cartolina, e la mancanza di curiosità per la realtà traspare anche dalla scelta, sebbene la saga abbracci almeno sessant’anni di vita, di ambientare il tutto in una sorta di eterno presente in cui ogni tempo e ogni luogo finiscono per assomigliarsi.

A far da collante dovrebbe essere l’idea della vita come un narratore inaffidabile: ma questa “morale” non emerge naturalmente dagli avvenimenti, bensì è un’etichetta posticcia apposta sulla storia, esposta pedantemente da Abby quando spiega a Will il contenuto della sua tesi di laurea, dedicata all’argomento.

La vita in un attimo è esattamente questo: un film a tesi preoccupato unicamente di corrispondere alla sua intuizione di partenza. Peccato che per farlo il racconto naufraghi nella completa inverosimiglianza, dimenticando anche per strada i personaggi, che mimano sentimenti assoluti e squassanti, senza mai vibrare di una qualche autenticità, restando delle marionette a disposizione di un narratore che ha già deciso cosa faranno e perché.

Ne La vita in un attimo infatti, contrariamente al messaggio dichiarato, il narratore Fogelman è molto affidabile, conosce esattamente la funzione che ogni personaggio riveste e la posizione di ogni tassello in una storia che, dopo averci fatto bere l’amaro calice dell’inevitabilità del dolore, ci gratifica col dolce balsamo dell’amore come forza che dà senso all’esistenza e la rende un’avventura straordinaria.

Il problema maggiore de La vita in un attimo, a pensarci, non è nemmeno l’inverosimiglianza: esistono melodrammi con storie più improbabili di questa, e che però sanno autenticamente commuovere. Ci riescono perché sono film narrativamente arrischiati, sempre sul punto di deragliare, che per questa ragione regalano vere sorprese e vere emozioni. Cosa che non riesce a Daniel Fogelman, che ha troppa consapevolezza e mantiene un eccessivo controllo sulla sua storia proverbiale e prevedibile. Purtroppo per lui, se ne accorge anche lo spettatore.