La prima notizia è che La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, in concorso in questi giorni al festival di Berlino, non è una puntata della serie Gomorra in versione adolescenziale, di cui pure il regista ha diretto qualche episodio. La seconda è che il film riesce a discostarsi, con scelte apprezzabili, dal libro omonimo di Roberto Saviano da cui è tratto. Proprio Saviano è uno degli sceneggiatori responsabili della libera rilettura del suo romanzo, insieme allo stesso Giovannesi e Maurizio Braucci, eccellente conoscitore di lingua, luoghi, dinamiche sociali della Napoli raccontata dal film.
L’intuizione maggiore de La paranza dei bambini, che detta il ritmo e scolpisce il senso profondo dell’operazione, sta nel modo in cui viene radiografata Napoli. Non c’è un solo campo lungo, uno sguardo panoramico sulla città, nessuna immagine-cartolina di cielo e mare a concedere un po’ di respiro. C’è unicamente il mondo limitatissimo come lo vivono i personaggi, il dedalo di vicoli in cui si dibattono le loro esistenze, mostrati di scorcio in inquadrature sempre incollate a volti e corpi. È una Napoli a cortissimo raggio, che non si apre visivamente ad alcuna prospettiva e che quindi, metaforicamente, non offre neanche opportunità ai giovani protagonisti. Così, bloccati dentro un perimetro chiuso, asfittico, l’unico sbocco per questi adolescenti di quattrodici, quindici anni è la carriera criminale.
Claudio Giovannesi opta per un linguaggio cinematografico depurato, con una fotografia naturalistica (dell’ottimo Daniele Ciprì) che evita esasperazioni chiaroscurali. La camera si limita a pedinare i comportamenti dei personaggi, senza zavorrare la storia con interpretazioni sociologiche, tenendo a distanza anche i generi cinematografici codificati – che è il problema principale della serie Gomorra, ingabbiata dentro una cadenza noir mistificante.
I protagonisti de La paranza dei bambini restano in primo luogo dei ragazzini qualsiasi, di un contesto certo difficile, che vogliono principalmente una cosa, al pari di tutti gli adolescenti a qualunque latitudine e di qualunque classe sociale: consumare. Giovannesi è giustamente didascalico nel farli vedere tutti questi costosi oggetti del desiderio: vestiti, orologi di marca, tavoli riservati in discoteca, che costituiscono l’unico obiettivo e la misura tangibile dell’affermazione personale.
Allora il più intraprendente del gruppetto di amici, Nicola (Francesco Di Napoli) capisce che la soluzione sta nell’abbandonare il piccolo spaccio al soldo delle famiglie camorristiche e strutturarsi come una paranza. Cioè una gang criminale formata da giovanissimi che, approfittando del vuoto di potere nel quartiere Sanità, se ne impossessa, costruendo alleanze e puntando sull’uso di una violenza di nuovo tipo – le famigerate stese, raffiche sparate nelle strade non per uccidere ma a scopo intimidatorio, per dimostrare in modo spettacolare il proprio controllo sul territorio.
Queste giovani vite sprecate Giovannesi le racconta con un tono antiretorico e la sua capacità di sguardo sull’adolescenza (già apprezzata in Alì ha gli occhi azzurri e Fiore), che dei personaggi restituisce l’innocenza propria dell’età – l’ingenuità della storia d’amore di Nicola con Letizia (l’appuntamento coi palloncini rossi), il litigio col fratellino per le merendine. In tal senso è stato fondamentale il lavoro di casting, 4000 ragazzi tra i 14 e i 18 anni incontrati per individuare i nove componenti del gruppo, tutti non professionisti che regalano al film una tonificante autenticità espressiva.
La paranza dei bambini non ha tesi preconcette e si attiene al suo compito di registrare senza compiacimenti le azioni dei personaggi, muovendosi sempre alla loro altezza. Qui emerge più significativa la distanza dal romanzo, che tende a sottolineature più marcate, non sempre convincenti. Basti pensare, nel libro, a prologo ed epilogo, sensazionalistici, che sovrappongono al supposto racconto della realtà una cadenza di genere che finisce per rendere meno verosimile la storia e rischia anche di rivestire i protagonisti di un’aura mitologizzante.
Tutto questo la versione cinematografica de La paranza dei bambini riesce ad evitarlo, con una messa in scena della brutalità che senza essere eufemistica non è mai spettacolarizzante, con toni secchi e quotidiani che rifuggono dall’epica. Una scelta confermata dal finale, che lascia fuori campo la violenza e però la presagisce, con una cadenza di sommesso, ma sconsolato, pessimismo della ragione.