Festival di Sanremo. No, non sono solo canzonette

Spero che la grande cerimonia di svago qual è il Festival, non riservi brutte sorprese e che il tema dei migranti, almeno quello, resti fuori da ogni speculazione giornalistica.


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Credo che sbagli chi crede che il Festival di Sanremo non sia un evento politico. Il programma televisivo più visto in Italia, quello che – nel bene e nel male – decide gran parte della colonna sonora delle nostre giornate ha sempre fatto politica, raccontando l’Italia agli italiani.

È strano, quindi, che ci si scandalizzi per una dichiarazione “politica” del direttore artistico. Eppure per giorni la questione ha tenuto banco. In una lettera scritta a Dagospia, la direttrice di RAI UNO ha infatti spiegato la propria idea di Festival: “…sono solo canzonette, o almeno dovrebbero esserlo, una grande cerimonia di svago e spettacolo nazionale che invece, per responsabilità non solo di Baglioni, sono state trasformate nel solito comizio”.

Il Festival racconta l’Italia agli italiani, dicevo. Soprattutto a quegli italiani che non prendono la metro o gli autobus che collegano i centri alle periferie, e non hanno così la possibilità di incontrare la ricchezza della nostra società, che fiorisce negli sguardi delle signore che si sono trasferite qui per curare i nostri anziani, nei sorrisi dei tanti ragazzi sintonizzati sulle playlist di Spotify e persi a scorrere le foto della timeline di Instagram. Una società che inciampa in drammi e problemi e che manifesta per nuovi diritti e libertà. E racconta le conquiste sociali, o denuncia le ingiustizie o promuove il cambiamento. Mi sembra persino superfluo ricordare che il Festival dell’anno scorso è stato non soltanto “contaminato” da tematiche impegnate, ma addirittura vinto da una canzone, quella di Ermal Meta e Fabrizio Moro, che era un grido di rabbia, e una sfida contro il terrorismo e la violenza ideologica. E per Festival di Sanremo sono passati tutti i temi più sensibili, dalla strage di Capaci recitata da Giorgio Faletti e arrivata al secondo posto nel 1994, al richiamo morale di Roberto Vecchioni (vincitore nel 2011 con “Chiamami ancora amore”), dall’accusa  di “Spalle al muro” con cui  Renato Zero ha portato al centro dell’attenzione l’emarginazione dei vecchi,  al brano sul tema dei manicomi “Ti regalerò una rosa” di Simone Cristicchi (anche questo vincitore del 57’ Festival ), fino a canzoni sull’emergenza sociale, sull’identità sessuale, sul disagio esistenziale, vedi quelle di Luigi Tenco, che proprio nel Festival mise in gioco tutto se stesso, dichiarando la delusione di veder premiate quelle strofe banali e disimpegnate così amate dalla direttrice di Rai Uno.

Certo “Io tu e le rose”, declinata in mille modi, con versi nuovi, nuovi arrangiamenti e diversi interpreti, avrà la sua parte in ogni edizione del Festival, ma ci stupirà che a cantarla – magari – sia una ragazza figlia di marocchini, italiana di seconda generazione.

Persino la citazione “sono solo canzonette” suona stonata. Edoardo Bennato intendeva proprio aggredire con ironia un certo perbenismo e dimostrare il contrario di quanto possa suggerire il titolo “Non potrò mai diventare direttore generale – canta Bennato – …non potrò mai far carriera nel giornale della sera…anche perché finirei in galera.. .guarda invece che scienziati, che dottori che avvocati… e con quanto fiato in gola vi urlerò non c’è paura, ma che politica ma che cultura, sono solo canzonette”.

Occorre dunque sperare che la grande cerimonia di svago, tra frappe, chiacchiere di Carnevale, palette con i voti, commenti sui vestiti delle vallette, attese di ruzzoloni delle stesse dalla scalinata, non riservi brutte sorprese e che il tema dei migranti, almeno quello, resti fuori da ogni speculazione giornalistica.

E se a vincere sarà un “nuovo” italiano (e in gara ce ne sono diversi) si eviti di pensare che possa essere stato favorito da una scelta politica o dalle parole di Claudio.  È la nuova Italia che canta, con nuovi racconti e nuovi suoni.