Corvo rosso non avrai il mio scalpo: stasera in tv un Robert Redford d’annata

Alle 21 su Iris c’è uno dei capolavori degli anni Settanta. Il western di Sydney Pollack riflette sul mito della wilderness, la natura selvaggia a cui l’uomo civilizzato americano ha bisogno di tornare per ritrovarsi. Un mito intramontabile, come ha dimostrato il successo di "The Revenant".

Corvo rosso non avrai il mio scalpo con Robert Redford

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Il successo di The Revenant di Alejandro González Iñárritu, con Leonardo DiCaprio nel ruolo del trapper realmente esistito Hugh Glass, ha ricordato quanto sia centrale nella cultura americana il rapporto con la natura. Lungo quei vastissimi spazi che conducono verso Ovest e a Nord si sono solidificati valori essenziali dell’identità del popolo statunitense. Da un lato il tema della frontiera, come spazio pionieristico della conquista e dell’espansione della civiltà; dall’altro il mito della wilderness, della natura selvaggia e incontaminata quale orizzonte necessario all’individuo per ritrovare un’autenticità antecedente alla corruzione del processo di civilizzazione.

La natura, perciò, nella cultura statunitense, è prima di tutto l’immagine stessa della bellezza e della perfezione: e già i padri pellegrini puritani ne decantavano le lodi nei loro sermoni, reputandola segno della presenza di Dio nel mondo. Cosa che in The Revenant, in realtà, traspare poco: poiché il film, a parte qualche venatura spiritualistica, veicola una rappresentazione unilaterale della natura quale luogo inospitale, che contiene sì una sua sublime bellezza, ma inequivocabilmente non a misura d’uomo. DiCaprio soffre e patisce in scenari sempre innevati e proibitivi, quasi che l’ambiente fosse refrattario alla presenza dell’essere umano.

Ma non è stato questo l’unico modo, tantomeno il principale, con cui la natura selvaggia è stata raccontata nella cultura, e di riflesso nel cinema americani. Viene da pensare immediatamente a un film che ha diversi tratti in comune con The Revenant: Corvo rosso non avrai il mio scalpo (traduzione italiana del più sobrio Jeremiah Johnson, 1972), uno dei capolavori di Sydney Pollack interpretato da un Robert Redford in stato di grazia, tanto misurato quanto DiCaprio è invece istrionico. Anche il personaggio principale di questo film è ispirato a una figura reale, il trapper “Mangiafegato” Johnson. Ma è molto diverso il modo in cui viene raccontato il rapporto tra uomo e natura. Le Montagne Rocciose in cui Jeremiah sceglie volontariamente di vivere, abbandonando il consesso civile, sono uno scenario impervio ma non unilateralmente mortifero. Come ogni luogo sottoposto alle leggi della natura, quelle terre conoscono il ciclico avvicendarsi delle stagioni, con i rigori innevati dell’inverno che lasciano spazio a un tiepido e accogliente sole primaverile.

E quest’alternanza climatica si riverbera sul racconto, ritmato da un andamento picaresco in cui si succedono momenti ironici e drammatici, segnati dai rari ma decisivi incontri con i pochi abitanti delle terre selvagge. Un vecchio e bizzarro cacciatore di orsi che insegna a Jeremiah come sopravvivere alle intemperie (Will Geer); una donna cui hanno sterminato la famiglia, impazzita per il dolore, che gli consegna il bambino Caleb per prendersene cura; gli indiani, naturalmente, con i quali Jeremiah entra pacificamente in contatto, fino a essere costretto a prendere come compagna una squaw (Delle Bolton) donatagli da un capotribù; Del Gue (Stefan Gierasch), un altro solitario avventuriero, misto di rudezza e sensibilità poetica, che trova parole che restituiscono la possente bellezza del creato e il significato della vita che si è scelto.

Perché l’immersione nella natura è sempre frutto di una scelta. In Corvo rosso non avrai il mio scalpo Jeremiah, in pochi passaggi volutamente laconici, ammette di aver abbandonato deluso la vita di città dopo la partecipazione alla guerra tra Stati Uniti e Messico del 1846 (quindi il film, ragionevolmente, è ambientato sul finire di quel decennio). Un dettaglio essenziale per la comprensione del racconto: perché quell’evento è all’origine della scelta di disobbedienza civile di Henry David Thoreau, che finì in galera perché si rifiutò di pagare le tasse per finanziare un conflitto secondo lui ingiusto. E Thoreau è l’autore di Walden. Vita nel bosco, un’opera autobiografica che rivendica la scelta del ritorno alla natura come risposta alla perdita d’innocenza e alle ansie causata dalla vita nelle città della modernità e del progresso.

Jeremiah Johnson perciò è l’uomo americano che, assaporato il doloroso urto del processo di civilizzazione, sceglie di mettersi in marcia sull’antico sentiero, ricercando nell’ideologia della wilderness la fusione primigenia con la natura. Ed è magnifico il tono tra epica, realtà e mito (non dimentichiamo che autore della sceneggiatura è John Milius, capace di trasfigurare in cadenze mitologiche persino il surf) con cui Corvo rosso non avrai il mio scalpo racconta il rapporto tra uomo e paesaggio: un ambiente mutevole (Jeremiah non sa in che mese è e si orienta col susseguirsi delle stagioni), a tratti gelido e inospitale, ma anche accogliente e vivibile.

Lo sguardo di The Revenant, al confronto, sembra quello di un cittadino che nell’impatto con la natura viene sopraffatto dalla sua obiettiva faticosità e non riesce a cogliere, aldilà della fascinazione esteriore per la maestosità del paesaggio, l’autentica bellezza di uno spazio, nonostante tutto, abitabile. Un mondo che aggredisce l’uomo, ma che può anche divenire la sua casa, se si riesce a comprenderne le regole.

Corvo rosso non avrai il mio scalpo è anche un’opera in linea con la New Hollywood dell’epoca: non tanto stilisticamente – Pollack sotto il profilo formale, per sua stessa ammissione, è un regista classico – ma per come il suo western assorbe la revisione tematica cui il genere americano per eccellenza era stato sottoposto in quegli anni. Quindi il film offre una rappresentazione onesta e oggettiva degli indiani: né amici né nemici, né violenti né pacifici, bensì un insieme distinto di tribù ognuna con i propri usi e tradizioni, che è necessario apprendere e rispettare. Infatti la vita di Jeremiah entra in crisi quando, per aiutare una truppa dell’esercito a raggiungere dei coloni in difficoltà, attraversa un cimitero indiano. A quel punto scatta la vendetta dei Corvi, con cui Jeremiah ingaggia uno scontro durissimo. E il confronto col male insito in noi – che contraddice la filosofia non violenta di Thoreau – costituisce un altro versante dell’inesausta ricerca del vero sé e del proprio posto nel mondo, un’interrogazione esistenziale senza astrazioni, che si plasma nella fisicità di scelte e gesti dell’uomo a contatto con la natura.

Non è un caso che Corvo rosso non avrai il mio scalpo termini ritornando ciclicamente all’inizio, perché ciclico è il ritmo delle stagioni ed è su quello che si esempla il tempo del racconto. Jeremiah ritrova il cacciatore di orsi, Del Gue e rivede la casa di Caleb, trovandovi una famiglia di coloni. Questi incontri potentemente simbolici gli consentono di apprezzare i mutamenti intercorsi nella sua vita e lo aiutano a definire le prossime tappe di un’esistenza che solo attraverso il perenne cambiamento e la più intensa fusione con l’ambiente può attendere davvero all’imperativo emersoniano del “sii te stesso”. Robert Redford è indimenticabile in uno dei film più belli degli anni Settanta, che è anche una riflessione sommessa e partecipe sull’essenza dell’identità americana.