Vasco Rossi e i suoi “scolleghi”, da Morandi a Dalla a Zucchero e De André: le rivelazioni del rocker

Gli aneddoti di Vasco Rossi sui colleghi che a vario titolo ha incrociato in 40 anni di carriera, dai duetti mancati ai brani scritti insieme


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A meno di un mese dalla data zero del suo tour negli stadi, Vasco Rossi si racconta senza filtri tra ricordi, opinioni e ironia parlando non solo di ciò che lo aspetta col nuovo VascoNonStop Live, ma anche del suo passato, visto che in 40 anni di carriera gli aneddoti non mancano.

Oltre ad anticipare parte della scaletta del suo tour 2018, nella lunga intervista concessa a Vanity Fair per il numero che gli ha dedicato la copertina Vasco ha avuto modo di parlare anche di tanti suoi colleghi. O meglio “scolleghi”, come li definisce il rocker di Zocca, visto che non ha mai creduto troppo nella condivisione tra artisti solisti, come spiega parlando dei tanti no che ha detto in carriera. Rifiuti non solo a proposte di duetti, ma anche a iniziative benefiche che, per quanto rispettabili, per Vasco sono anche strumenti di autopromozione: per il cantautore emiliano la beneficenza si fa in modo personale e riservato.

Nella stessa intervista in cui dava un’opinione puntuta sul Festival di Sanremo 2018 condotto da Baglioni, Vasco ricordava anche l’incontro con Gianni Morandi, che non si è concretizzato in una collaborazione.

Premesso che colleghi secondo me è un termine sbagliato, perché noi artisti siamo scollegati uno dall’altro, quindi, semmai, siamo “scolleghi”, Morandi l’ho incontrato diverse volte. Anni fa lui e Lucio Dalla erano venuti a Zocca per propormi di collaborare non mi ricordo a che cosa. Il fatto è che siamo universi diversi e paralleli. E, poi, io non sono tipo da duetti e terzetti. Ho sempre avuto la sensazione che quelli che si mettono insieme è perché non sanno bene che cosa fare. Cantare una canzone metà io e metà te va bene per i bambini dell’asilo: ci mettiamo il grembiulino, ci teniamo per mano e cantiamo la canzoncina. A volte, ti dicono: “Ma è per beneficenza”. Ma, secondo me, la beneficenza è una di quelle cose che fai aprendo il portafoglio e magari stai anche zitto, sennò non si capisce dove finisce il vantaggio per chi la fa e dove comincia la beneficenza. Per questo al grande Pavarotti ho sempre detto di no. Per lo stesso motivo non sono neppure mai andato a giocare nella nazionale cantanti.

Di Lucio Dalla, poi ha condiviso un ricordo tenero e amichevole.

Ci siamo incrociati parecchie volte. Mi chiamava Piovasco. Perché aveva capito che al di là dell’aspetto selvaggio in realtà sono un buono. Era una raffinata testa di cazzo e un artista della Madonna. Sono cresciuto ascoltando le sue canzoni. Me lo ricordo a Sanremo quando cantò 4 marzo 1943, rimasi incantato.

Il ricordo più bello legato ai suoi colleghi resta però l’incontro col mito Fabrizio De André, vero e proprio faro per la musica del Blasco.

Lo incontrai la prima volta nei primi anni Ottanta. Stavo quasi per inginocchiarmi ai suoi piedi ma lui mi ha subito mandato a fanculo: aveva questo modo fantastico di togliere di mezzo mitologie e sovrastrutture. Lui e Dori Ghezzi volevano produrre i miei dischi. All’epoca, avevo delle case discografiche un po’ “ballerine”. I dischi manco li distribuivano. L’apprezzamento di De Andrè e di De Gregori sono le mie medaglie, i miei premi Oscar. Un altro grande complimento me lo fece Mogol, mi disse che ero riuscito a scrivere testi ancora più sintetici dei suoi. E lui, per me è uno degli autori più bravi. Già prima della collaborazione con Battisti. Riderà, che io cantavo da piccolo, per esempio, è sua.

Ma il racconto più consistente Vasco lo dedica a Zucchero, ricordando come è nata la canzone Pippo (malcelato riferimento a Baudo) di cui ha firmato il testo, poi attribuito al solo Fornaciari.

È quello che ho conosciuto meglio di tutti. Aveva scritto Rispetto che mi era piaciuta molto e avevo voluto incontralo. Ci siamo visti un po’ di volte… E poi è successo la cosa di Pippo. Era venuto a Zocca a Natale e una sera, eravamo ubriachi, ci siamo messi a canticchiare: “Pippo che cazzo fai, Pippo che pesce sei…”. Si rideva: “Dai, andiamo insieme a Sanremo a prenderlo per il culo” (…) Comunque, in quel periodo Zucchero si stava separando da sua moglie: “Quando telefono a casa e la trovo allegra vuol dire che c’è il suo amico, quando è triste, invece, è da sola”. Che è la storia che si racconta nella canzone perché quando sono tornato a casa, la notte, ho continuato a scrivere e l’ho finita. Ma passata la sbornia me n’ero anche praticamente dimenticato. Fino a che, qualche giorno dopo, Zucchero mi chiama e mi dice: “Sono in studio di registrazione a Modena a incidere Pippo e vorrei che venissi a cantarla”. Gli spiegai che avevo scherzato: “Sto per uscire con l’album C’è chi dice no, capisci bene che non posso venire con te a Sanremo a cantare Pippo”. È finita che la canzone l’ha incisa e il testo se l’è firmato lui. Però andava in giro a dire che, in realtà, l’autore ero io. Così i giornalisti mi chiedevano se era vero, ma io negavo. Dico io, oltre al danno la beffa?

I due si sono poi rivisti tante volte e hanno superato quell’episodio. Il Blasco ha mostrato apprezzamento per il talento del bluesman ma si è anche lasciato andare a commenti senza peli sulla lingua sulla sua poetica.

Il punto è che, Zucchero scrive musiche meravigliose, mentre i testi sono un po’ ruspanti. Quando ho sentito quella sua canzone che dice: “Questo è un urlo che viene, e un urlo che va, dal buco del culo al cuore”, gli ho telefonato e gli ho detto: “Senti, la prossima volta per favore mi chiami che ti dò una metafora meno volgare. Gratis, naturalmente”.