Arrival è uno splendido film di fantascienza, ed Amy Adams è da Oscar

Gli alieni arrivano sulla Terra. E la miglior linguista del mondo deve decodificare il loro astruso sistema di comunicazione. Il film di Denis Villeneuve è un rompicapo in cui tutto va interpretato: la lingua degli extraterrestri, le emozioni dei protagonisti, la logica e il significato del racconto. Un film intimo e grandioso.

Arrival il film di fantascienza di Denis Villeneuve

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Arrival, il film di fantascienza di Denis Villeneuve tratto da un romanzo breve di Ted Chiang, comincia come un racconto intimista. Il prologo mostra una porzione della vita della dottoressa Louise Banks (Amy Adams, bravissima), dalla nascita alla morte in giovane età dell’unica figlia. Il montaggio, memore di Terrence Malick, è frammentato, ellittico. Restituisce perfettamente il dolore della protagonista, ma lascia tanti interrogativi circa il preciso senso di ciò che si è appena visto. Le immagini che passano sullo schermo sono simboli ambigui, tutti da interpretare.

Sono solo i primi di un film, Arrival, che ruota interamente intorno all’impresa dell’interpretazione, al bisogno di capire le cose oltre le apparenze e dare un significato ai segni. Questo è il mestiere di Louise, luminare della linguistica. Perciò il colonnello Weber (Forest Whitaker) la coinvolge in una missione delicatissima. In dodici punti del pianeta sono giunte delle astronavi extraterrestri. Gli alieni parlano una lingua di suoni incomprensibili: Louise è chiamata a decrittarla.

Viene catapultata in Montana, insieme al fisico Ian (Jeremy Renner), e condotta all’interno del veicolo alieno per un incontro ravvicinato del terzo tipo. L’astronave ha la forma d’una gigantesca pietra pomice, sorta di menhir sospeso a pochi metri da terra, enigmatico come il monolito di Kubrick. Il gruppo di umani vi accede salendo, nel senso dell’altezza. Ma a un certo punto la legge di gravità non vale più, gli uomini camminano lungo le pareti verticali come fossero in pianura, arrivando a una sala con una superficie opaca (uno schermo cinematografico?), dietro la quale appaiono gli alieni. Che assomigliano a enormi seppie: dai tentacoli spruzzano un liquido-inchiostro col quale descrivono simboli circolari, grandi macchie dalle differenze impercettibili. Ecco il misterioso linguaggio da interpretare, per comprendere le intenzioni, bellicose o meno, degli extraterrestri.

In Arrival, ribadiamolo, gli incontri tra alieni e umani, mostrati in orizzontale per ovvia comodità dello spettatore, in realtà avvengono in verticale. Non è sospesa solo la legge di gravità, ma entrano in crisi anche i parametri con cui ci orientiamo nel mondo. Come a dire che Louise, per capire la lingua degli alieni, deve compiere un sforzo non solo razionale e interpretativo, ma più ampio, entrando in una dimensione che letteralmente ribalta le sue strutture cognitive, esperienze, emozioni.

Il romanzo breve da cui Denis Villeneuve ha tratto il film di fantascienza Arrival si chiama, non a caso, Storia della tua vita. L’imponente architettura di un racconto sul possibile destino della Terra (per quanto ne sappiamo, gli extraterrestri potrebbero voler distruggere il pianeta) si fonda sulla vicenda intima di una sola persona, Louise. La cui memoria, mentre svolge il suo arduo lavoro, s’affolla di immagini della vita insieme alla figlia, brandelli d’un passato (passato?), che s’impastano col presente, come allucinazioni. E in quei ricordi si nasconde un pezzo della soluzione all’enigma della lingua aliena.

Storia di una donna che cerca di dare senso a segni incomprensibili, Arrival si trasforma esso stesso in una collezione di segni ambigui. La struttura del film a un certo punto si rivela come un rebus, nel quale passato, presente e futuro non sono ciò che sembrano e debbono essere anch’essi interpretati.

Più che fantascienza filosofica, Arrival è una fantascienza intimista. La sorte del pianeta è legata non solo alla capacità della protagonista di comprendere razionalmente la logica di una lingua, ma anche di capire le proprie emozioni e memorie più dolorose. Per riuscire a parlare con gli alieni, Louise deve riuscire a parlare con se stessa.

In Arrival, inoltre, il dialogo non è complesso solo con gli alieni. Le astronavi sono atterrate in luoghi diversi, Sudan, Cina, Russia. Gli esperti di tutto il mondo sono in contatto, per scambiarsi le conoscenze acquisite negli incontri con gli extraterrestri. A un certo punto smettono di comunicare, perché alcuni governi, forse equivocando la lingua degli alieni, intendono attaccarli. Solo allora la Terra è davvero in pericolo. Interpretare un’altra lingua, parlarsi, capirsi è difficile. E necessario. Arrival non parla di alieni.