La mafia uccide solo d’estate ha portato una ventata di originalità su Rai 1: con i primi due episodi di lunedì 21 novembre la serie ispirata all’omonimo film di Pif, che anche qui racconta la storia in qualità di voce narrante, ha fatto il suo debutto con un’accoglienza più che positiva da parte del pubblico dell’ammiraglia Rai.
Presentata alla vigilia dell’esordio come il tentativo di replicare il successo del La mafia uccide solo d’estate al cinema, ma di raggiungere un pubblico più ampio e intergenerazionale con lo stesso obiettivo di ridicolizzare il fenomeno mafioso e combatterlo attraverso le armi dell’ironia e del grottesco, la fiction sembra aver centrato il suo obiettivo: 6.390.000 spettatori pari al 22.27% di share, nel primo episodio, e 5.560.000 spettatori pari al 22.7%, nel secondo episodio, hanno seguito l’esordio della serie.
Due episodi sono ancora pochi per valutarla nel complesso, ma di sicuro la scelta di trattare un argomento così ampio e complesso come quello del fenomeno mafioso nella sua ascesa durante gli anni di piombo dal punto di vista di una famiglia modesta di Palermo che vede entrare la criminalità nella sua vita di tutti i giorni, talvolta nemmeno accorgendosene, è un artificio che Pif ha dimostrato di utilizzare con sapienza. Perché la storia dei Giammarresi potrebbe essere quella di chiunque a Palermo, come pure quella di una famiglia di Napoli o di qualsiasi altra grande città in cui il fenomeno criminale, in varie forme e articolazioni, sia talmente pervasivo da entrare nella vita delle persone in modo a volte subdolo, a volte estremamente palese.
Quella dei Giammarresi è una famiglia come tante: padre impiegato, madre supplente a scuola, una figlia adolescente che incarna le ideologie del femminismo e della lotta di classe, un bambino di dieci anni che apre gli occhi sul mondo con la sua curiosità e voglia di capire. Sono tante le citazioni dall’omonimo film campione di incassi, a partire dalla presenza di Boris Giuliano che diventa il punto di riferimento per il piccolo Salvatore, che prova a capire come funziona il mondo a partire dall’amore per le femmine, che a Palermo sembra essere identificato come è l’unica vera ragione per cui si spara e si ammazza per strada senza pietà (altra citazione chiarissima dal film). I personaggi sono ben caratterizzati all’interno di tipologie precise, dal padre di famiglia rigoroso e coraggioso ma non abbastanza da denunciare di aver visto un auto sfrecciare via dopo l’assassinio di uno dei poliziotti della squadra mobile di Palermo, per la paura di ripercussioni sulla sua famiglia, allo zio guascone che pensa di sapere come funziona il mondo ed è perfettamente a suo agio in una società in cui la criminalità c’è ma “non si vede“, come racconta Pif in apertura dell’ episodio. Il prete, interpretato da un Nino Frassica sempre in stato di grazia, è anch’egli il simbolo di un’omertà istituzionale, col suo “segreto confessionale che vale sempre, in chiesa come al bar”. E poi ci sono loro, i mafiosi e i collusi ritratti nella loro becera ignoranza. Il primo vero momento in cui si ride di loro è all’inizio del secondo episodio, quando Totò Riina porta i suoi omaggi al costruttore Ciancimino in segno di “gratitudine”, ma è incapace perfino di pronunciare il termine.
Pif ci ricorda come il clan dei Vassallo e quello che per pochi mesi sarebbe diventato il sindaco di Palermo, don Vito Ciancimino, abbiano cementificato intere aree verdi nell’hinterland con quintali di cemento a ricoprirle al solo scopo di realizzare un’enorme speculazione edilizia. La serie riesce a far sorridere perfino raccontando il modo in cui i clan hanno distrutto storiche ville liberty di Palermo, facendole saltare in aria con le bombe, per farci delle palazzine costruite con l’amianto (definito nella serie “un materiale indistruttibile”, all’epoca in cui i suoi effetti erano ben nascosti sia a chi vi lavorava sia a chi viveva in edifici costruiti con quelle l’insieme di minerali mortali). Azioni criminali che si intrecciano con i sogni della gente comune, su tutti quello di comprare casa facendo un mutuo e impegnandosi tutta una vita per pagarne le rate.
La mafia uccide solo d’estate riesce a rappresentare un fenomeno drammatico con una leggerezza incredibile, snodandosi tra tragedia e commedia senza difficoltà: difficile pensare di raccontare la Palermo infiammata dalle stragi negli anni di piombo con un tono scanzonato, ma proprio per questo capace di stimolare lo spettatore a riflettere attraverso la risata. E decisamente più efficace nella lotta alla mafia nell’immaginario collettivo rispetto a serie che pretendono di raggiungere lo stesso obiettivo rischiando di fare dei criminali degli antieroi dannati ma a loro modo potenzialmente affascinanti, seppur condannati al carcere o alla morte, come Gomorra. Qui i mafiosi sono dei perdenti senza se e senza ma. Non esiste alcun fascino per loro, non c’è modo di restarne ammaliati o incuriositi: sono ignoranti come maiali e vestiti soltanto di senso del ridicolo.
Unico rischio per la serie di Pif è quello di passare dalla caricatura alla macchietta quando si affrontano le vicende familiari e sentimentali, che a tratti sembrano qualcosa di già visto nelle tante fiction Rai in costume (da Raccontami a Questo nostro amore). A fare la differenza è quell’aspetto di denuncia sociale incanalato nella capacità di dissacrare i boss ed esaltare la bellezza è l’umanità dei grandi eroi che li hanno combattuti nelle loro vite di tutti i giorni, a partire da quell’anno, il 1979, che segna l’inizio della stagione dei delitti eccellenti, dal capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano (anche qui come nel film ritratto tra le sue amate iris) e giornalisti coraggiosi come Mario Francese, il cui personaggio sarà introdotto dalla seconda puntata del 28 novembre.