John Rambo, aspettando il reboot, in tv c’è l’ultimo film della saga con Stallone

Alle 21.15 su Rete 4 Stallone, anche regista, veste per la quarta volta i panni del suo controverso personaggio. Stavolta non c’è propaganda. Al contrario, la messa in scena raccapricciante della guerra è al servizio di un messaggio pacifista.

John Rambo

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La notizia del giorno è che il reboot di Rambo si farà, diretto dallo specialista di action movie Ariel Vromen, però comprensibilmente senza Sylvester Stallone protagonista, per evidenti limiti di età (è nato nel 1946). Perfetta la coincidenza quindi con la programmazione televisiva di stasera, che su Rete 4 prevede in prima serata alle 21.15 l’ultima puntata della saga, John Rambo, del 2008. Con questo film Stallone torna a indossare a vent’anni di distanza (Rambo III era del 1988) i panni del suo personaggio più controverso, simbolo di un reazionarismo guerrafondaio molto in linea con la politica e l’immagine degli Stati Uniti negli anni Ottanta di Ronald Reagan.

John Rambo però è diverso dai predecessori. E non perché metta la sordina alla violenza. Al contrario, il quarto è l’episodio più cruento in assoluto. Un singolare computo ha contato in questo film 236 morti, ben 83 uccisi dal protagonista (ricordiamo che nel primo Rambo moriva una sola persona). Ma la brutalità è filtrata attraverso uno sguardo peculiare. Il film segna subito uno scarto netto rispetto agli altri film della serie, partendo da spezzoni di veri reportage televisivi che documentano il conflitto infinito tra la dittatura militare birmana e la minoranza Karen, che da decenni combatte per la propria indipendenza. Sono immagini volutamente disturbanti, in cui la realtà mostra il suo volto più repellente. Nulla a che vedere con il modo fasullo e anestetizzato in cui la saga di Rambo aveva raccontato la violenza negli anni Ottanta, quando gli intenti apertamente propagandistici della serie avevano bisogno di una messinscena addomesticata che del conflitto mostrasse gli aspetti eroici, esaltanti, omettendo quelli raccapriccianti.

In John Rambo, il protagonista e regista Sylvester Stallone ha perfezionato quel singolare processo di revisione cui l’attore ha sottoposto il proprio mito negli anni Duemila, scrostando via il superomismo, la muscolarità ipertrofica su cui aveva costruito la sua leggenda di interprete e personaggio, per ritrovare sotto quella patina metallica e compatta un’immagine più verosimile di uomo, in linea con ciò che probabilmente Stallone pensa di sé e dei nuovi tempi in cui vive. E in linea anche con la natura di un corpo che, inevitabilmente, invecchia e infiacchisce. Questa reinvenzione del suo statuto di icona, paradossalmente, è riuscito a rilanciare il mito di Stallone proprio aggredendolo, facendogli guadagnare l’affetto del pubblico e una nuova credibilità come interprete.

Il percorso di ridefinizione identitaria è dovuto necessariamente passare attraverso la riscrittura dei due personaggi simbolo di Sylvester Stallone, veri e propri alter ego dell’attore, Rocky e Rambo. Per questo Sly nel 2006 e 2008 ha diretto e interpretato Rocky Balboa e John Rambo, che costituiscono due capitoli d’una medesima vicenda. Già i titoli hanno qualcosa di paradigmatico: semplicemente i nomi propri dei protagonisti, rinunciando anche alla numerazione degli episodi, come si trattasse in entrambi i casi di un nuovo inizio. O meglio di una fine.

L’operazione più delicata riguarda certamente Rambo. La revisione di Rocky, infatti, non era troppo complessa. Si trattava di mettere da parte l’enfasi patriottica appiccicatagli posticciamente addosso in Rocky IV e recuperare gli elementi nativi del personaggio: le origini proletarie, la malinconia, il buon senso da uomo della strada, l’attaccamento ai valori e alla famiglia.

Rambo invece è tutt’altra questione: parliamo di un reduce del Vietnam apertamente sociopatico, che porta incisi su di sé i peggiori incubi, le più dolorose sconfitte della storia americana recente. Un personaggio bloccato, ostaggio d’un passato che riaffiora continuamente in forma di ossessione notturna. Una macchina bellica perfetta in caso di emergenza, come in Rambo 2 e 3, ma incapace di adattarsi alla cornice della semplice vita quotidiana. Su cosa fare leva per umanizzare un personaggio simile?

In effetti, in John Rambo ritroviamo il personaggio ancora in fase di stallo. Vive, decenni dopo la fine della guerra, nel sud-est asiatico, in Thailandia, guadagnandosi da vivere come cacciatore di serpenti. Continua ad avere incubi ricorrenti: in uno di questi sogna addirittura il finale alternativo, poi tagliato, del primo Rambo, quello in cui si uccide. Insomma, nulla pare cambiato per il reduce di guerra, chiuso dentro il suo inestinguibile trauma. Un personaggio simile può mutare solo per ragioni eccezionali.

Che in John Rambo hanno le fattezze d’un gruppo di medici volontari statunitensi, che vogliono raggiungere la Birmania per portare aiuti e il conforto della fede alla minoranza Karen, vessata dalla dittatura militare. Dopo molte titubanze Rambo accetta di accompagnarli, istigato da Sarah (Judie Benz), che ne intuisce la muta sofferenza e lo invita ad aprirsi. Una volta giunti a destinazione, i missionari vengono fatti prigionieri e torturati. A quel punto Rambo, insieme a un gruppo di mercenari, va a liberarli. E sarà una carneficina.

John Rambo è tutto qui, nell’orrore. La violenza di questo film è insostenibile, con corpi che esplodono in un’orgia di effetti gore che trascendono qualunque limite, attraverso i quali Stallone, con logica elementare ma a suo modo efficace, vuole mostrare nella sua letteralità l’orribile crudeltà della guerra. John Rambo non offre alcuna ripulitura anestetica dei fatti. E sebbene si parteggi istintivamente per l’eroe, è difficile per lo spettatore non provare disagio, perché Rambo scatena una violenza implacabile, uguale e contraria a quella attuata dai crudeli militari birmani.

Guardando John Rambo, quello che ci si augura non è tanto la vittoria degli eroi, quanto la rapida fine della disgustosa mattanza. Certo, poi Sylvester Stallone resta un regista elementare, e non sempre controlla la materia del racconto. L’eroe infatti resta invincibile e la macchina da presa indugia in ralenti estetizzanti e frasi esaltate ed esaltanti (la celebre “Vivere per niente o morire per qualcosa”) che fanno affiorare nel bel mezzo della ripulsa una fascinazione sinistra per l’orrore cui si sta assistendo. Paradossalmente, però, la rozzezza della messa in scena rende John Rambo ancora più scomodo e disturbante, perché la mancanza di lucidità registica finisce per collimare con l’assenza di razionalità della guerra, di cui così esprime ancora meglio la natura intrinseca.

Prima di John Rambo altri film hanno saputo raccontare la barbarie della guerra con un approccio realistico e senza ipocrite censure. Pensiamo solo a un film determinante per l’immaginario bellico come Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Lì però la cornice storica della lotta al nazismo dà un senso all’orrore, ricompone gli accadimenti in un orizzonte di significato più vasto, in cui il sacrificio risponde a una logica che, per quanto dolorosa, è accettabile.

In John Rambo invece, sebbene si tratti ancora di soccorrere vite umane, la nauseante messa in scena della violenza trascende qualunque accettabile logica salvifica. Rambo uccide i nemici con una foga parossistica, in cui scarica non soltanto l’odio verso il nemico, ma anche verso il se stesso che è diventato a furia di combattere. E proprio lo stile scomposto e rudimentale del film, sempre sul punto di smarrire il suo equilibrio, riesce a cogliere l’insensatezza e l’ambiguità della guerra. L’olocausto di John Rambo, in sostanza riesce a produrre nello spettatore il suo esatto contrario, un’esigenza di pacificazione. Quella che ritrova l’eroe, capace nell’epilogo del film di porre fine anche al suo incubo privato.