“Steve Jobs”, il film. Chi è veramente l’uomo che ha cambiato le nostre vite?

Michael Fassbender è un magnetico Steve Jobs, in un film che evita il biopic tradizionale e racconta il fondatore della Apple come un enigma. Genio creativo, padre anaffettivo, imprenditore egocentrico. Un ritratto ambiguo e sconcertante, che evita semplificazioni.

Steve Jobs con Michael Fassbender

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Come ci ha insegnato una volta e per sempre Orson Welles, è impossibile raccontare il carattere di un essere umano. Più che mai quando si tratta di personalità straordinarie come il Charles Foster Kane di Quarto potere (esemplato sul magnate dell’editoria William Randolph Hearst) o il fondatore di Apple Steve Jobs. Ogni uomo è destinato a rimanere un mistero. E quindi anche davanti all’enigma Steve Jobs c’è un cancello con su un cartello che dice “No trespassing”: impossibile andare oltre. Anche per questo lo sceneggiatore Aaron Sorkin – al quale più che a Danny Boyle, credo, va imputato il senso dell’operazione Steve Jobs – ha apertamente rifiutato un biopic tradizionale (c’è già l’ottima biografia di Walter Isaacson), optando invece, sulla scorta di quanto aveva fatto con la sceneggiatura di The Social Network su Mark Zuckerberg, per un racconto parziale e obliquo, incentrato su pochi momenti specifici.

Steve Jobs (interpretato con magnetismo giustamente ambiguo da un Michael Fassbender candidato all’Oscar) va anche oltre: Sorkin fa corrispondere i canonici tre atti della sceneggiatura a tre avvenimenti precisi, i lanci di altrettanti nuovi prodotti, il Macintosh nel 1984, NeXT nel 1988 e l’iMac nel 1998. E ognuno di essi è vissuto in tempo reale: un febbrile dietro le quinte in cui si vede Jobs fino a un attimo prima di andare in scena sul palco, come in un conto alla rovescia. Le presentazioni, i famosi spettacoli cui Jobs dedicava la cura maniacale del suo straordinario talento da ipnotizzatore non li vediamo mai: perché, dice Sorkin, erano talmente perfetti da non contenere elementi di tensione drammaturgicamente fecondi. Mentre le cose interessanti sono i vuoti, i buchi, le incertezze del personaggio: non per gusto scandalistico o per emettere sentenze sull’uomo, ma per scrostare la patina del mito dall’immagine pubblica e pedinarne il carattere controverso.

Boyle e la sceneggiatura di Sorkin danno un ritmo teso e privo di soste a un film parlatissimo che pure non stanca mai. Tre atti che ne sembrano uno solo, dato che gli incontri si ripetono sostanzialmente uguali in ognuno di essi. Steve Jobs si confronta con la figlia Lisa, di cui rifiutò a lungo di riconoscere la paternità; col cofondatore Steve Wozniak (Seth Rogen), l’uomo che in un garage insieme a lui diede vita al sogno Apple; il membro del team Macintosh Andy Hertzfeld (Michael Stuhlbarg), più umano e protettivo di lui nei confronti di Lisa; il Ceo della prima Apple John Sculley (Jeff Daniels), passato alla storia come colui il quale, dopo il 1984, estromise Jobs da Apple, prima del suo trionfale ritorno alla casa madre. A tirare le fila, si aggiunge la direttrice marketing Joanna Hoffman (Kate Winslet), l’unica che sembra in grado di gestire l’ingombrante genio e contenerne l’intrattabilità.

Il film definisce le coordinate e ci mette sulle tracce della complessa identità del personaggio. Da cui si capisce che Steve Jobs è un sistema chiuso. La fondamentale divergenza tra Jobs e Wozniak ha sempre riguardato il disegno del Mac: Wozniak avrebbe voluto un computer cui gli appassionati potessero apportare modifiche (gli anni Settanta erano ancora l’epoca in cui gli hobbisti si divertivano a montare e smontare stereo hi-fi); Jobs invece desiderava una macchina “end to end”, impossibile da aprire, riadattare e mettere in comunicazione con altre tecnologie. Un’intuizione che, come sappiamo, è una caratteristica essenziale del successo del Mac. Che ne costituisce anche l’aspetto più criticato, per la natura quasi totalitaria di un mondo serrato in se stesso che non accetta il rapporto con l’esterno, in una sorta di disegno edenico (per alcuni allarmante) di purezza, simbolizzata dall’accecante design bianco della Apple.

La chiusura del sistema e il rifiuto al dialogo sono gli stessi del personaggio Jobs che, pur costretto e sollecitato a continui confronti, si ostina a opporre un pervicace diniego al riconoscimento dei bisogni altrui. Perché, da buon imprenditore visionario, la sua filosofia del superamento del limite non può accettare un no alle sue richieste. E perché, da padre anaffettivo (aggiungono Sorkin e Boyle), non vuole o non riesce ad accettare questo tipo di ruolo, e alla figlia che gli chiede come mai, sa solo ribattere “perché sono fatto male”.

Certo, il film ricorda anche che Steve Jobs è stato un bambino rifiutato e poi adottato, e questo aspetto strutturalmente destabilizzante non può non aver influito su una sorta di insicurezza emotiva di fondo, risarcita da un’ossessiva ricerca del controllo. A farne le spese è tutto il mondo che ruota intorno a lui, dagli affetti ai colleghi. Per Jobs, la vita quotidiana è un sistema difettoso cui lui risponde con una riconfigurazione della realtà che la renda perfetta e maneggevole. Il risultato è il computer Mac: che dà una nuova forma al mondo (liscia e senza spigoli) e allo stile di vita del nuovo millennio nei termini in cui li ha immaginati Steve Jobs. Il quale, poiché non dialoga con gli altri, non può che disegnare la macchina ideale a sua immagine e somiglianza. E lo fa anche se Wozniak l’aveva ammonito dicendogli che “i computer non dovrebbero avere debolezze umane e non voglio costruire questo con le tue”. Wozniak rincara anche la dose affermando: “I tuoi prodotti sono migliori di te, fratello”. E Jobs gli risponde: “Questa è l’idea, fratello”.

Sono le battute chiave del film: che fanno pensare, tornando a Quarto potere, che Steve Jobs ne costituisca una sorta di ribaltamento. Lì, per cercare di sondare (non capire) la personalità di Kane, Welles cercava una traccia segreta nel suo passato che potesse dare forma e senso alla sua enigmatica individualità, trovandola nella famosa slitta Rosebud su cui il piccolo Charles focalizza i sentimenti infantili poi negati e mascherati da adulto. Nel caso dell’inventore della Apple, invece, per cercare di comprendere davvero chi fosse questo mefistofelico creatore di avvenire, più che verso un edenico tempo che fu bisogna mettersi in cammino verso il futuro, seguendo quella prometeica riscrittura del mondo a misura di Jobs che è il computer Mac.

Se esiste una risposta al rompicapo della personalità di Jobs è dentro lo chassis del suo Mac: che sfortunatamente non si può aprire, perché il suo creatore l’ha progettato esattamente così, un sistema chiuso in se stesso. Il mistero è destinato a restare insoluto. La Rosebud di Steve Jobs ha la forma di un Mac: che ci permette di fare ogni cosa, ma volutamente non ci dice nulla del suo inventore.