Il caso Gabriele Muccino s’ingigantisce a ogni film: all’uscita di Padri e figlie c’è stata persino la lettera sul “Corriere della Sera” di Paolo Mereghetti che gli consiglia di tornare in Italia per ritrovare la sua vena autentica. Ai perfidi critici il regista risponde con una battuta del film: “Dio avrà avuto le sue ragioni per creare scarafaggi e critici letterari”. Letterari e non cinematografici perché il protagonista di Padri e figlie, Jake (Russell Crowe) è uno scrittore premio Pulitzer che ha perso la moglie in un incidente d’auto, nel quale ha anche riportato gravi danni neurologici. Gli resta la figlioletta Katie (Kylie Rogers): lei gli dà la forza per ricominciare, scrivere un nuovo romanzo e contrastare la cognata (Diane Kruger) che vorrebbe l’affido della bimba.
In parallelo si svolge la vicenda di Katie adulta (Amanda Seyfried), assistente sociale segnata dall’infanzia infelice, che si mortifica in incontri sessuali casuali specchio della scarsa autostima. All’orizzonte però appare il romantico Cameron (Aaron Paul), che la pone di fronte alla sua paura d’amare.
La sceneggiatura di Brad Desch è infarcita di scene madri (l’incidente d’auto, le impressionanti crisi epilettiche di Jake) e personaggi monocordi: la cognata ricca frustrata semialcolizzata, suo marito diabolico e infido che scatena la battaglia legale contro Jake, il bravo ragazzo che fa di tutto per amare l’autolesionista Katie che fa di tutto per essere lasciata, la ragazzina che lei ha in cura (Quvenzhané Wallis), ovviamente orfana di madre e incapace di parlare (come la protagonista che non sa “esprimere” le emozioni).
La storia di Padri e figlie è un guazzabuglio con dialoghi da bignami del kitsch sentimentale: “quando tornerò a casa sarà per sempre”, “non riesco ad amare, sento di non avere più niente dentro”, “gli uomini possono sopravvivere senza amore, le donne no”, l’incipit del nuovo romanzo di Jake, “l’ho chiamata patatina dal primo istante in cui l’ho vista” (se lo leggono, i critici senza cuore gli tolgono il Pulitzer). E non convincono molti snodi del racconto: basti pensare che Katie bambina impiega un’ora di film per mostrare qualcosa che assomigli al dolore per la perdita della madre, come se quella morte fosse solo un espediente narrativo per innescare la storia padre-figlia e non l’evento fondativo dei suoi traumi.
Ma Muccino, che pure è specialista di racconti survoltati (l’esagitato L’ultimo bacio, il ricattatorio Sette anime), fa quello che non ti aspetti e raffredda la temperatura melodrammatica. Usa l’alternanza tra le storie parallele di Jake e Katie per spezzare il ritmo, suggerendo connessioni tra passato e presente piuttosto che rapporti meccanici di causa-effetto. Cerca di asciugare il patetico dei dialoghi attraverso le immagini, lavorando sui cromatismi cupi della casa del protagonista, rifugio silenzioso e autunnale che smorza tanto le sue angosce quanto il tono sovraccarico della vicenda. Crepuscolare è il finale, che immerge l’inevitabile happy ending quasi nel buio e lo spegne con un campo lungo che vale come un sussurro al posto d’un grido. Sincerità d’autore in un prodotto in serie hollywoodiano: a Muccino questo va riconosciuto.