“Inerte” è l’aggettivo con cui più spesso i critici hanno bollato Il grande Gatsby firmato da Jack Clayton nel 1974, con Robert Redford protagonista. L’ultima versione, in ordine di tempo, prima della trasposizione di Baz Luhrmann: della quale, immaginabile conoscendo l’autore di Romeo+Giulietta e Moulin Rouge, tutto si può dire tranne che sia inerte.
Il fiammeggiante regista australiano ha enfatizzato gli aspetti potenzialmente esuberanti del capolavoro di Francis Scott Fitzgerald, a cominciare dal party organizzato dal misterioso Gatsby (Leonardo DiCaprio), cui partecipa tutta l’upper class newyorkese – benché nessuno di loro conosca il munifico anfitrione e nemmeno sia stato espressamente invitato.
L’unico invitato ufficiale è Nick Carraway (Tobey Maguire), voce narrante che racconta retrospettivamente la drammatica vicenda di Gatsby. Nick si perde nella festa selvaggia, orgia di coreografie, colori, fuochi d’artificio, musiche – che frullano con disinvoltura jazz e contemporaneo, da Jay-Z a Beyoncé. Come Nick, davanti a questa sgargiante esibizione di lusso restano a bocca aperta tutti gli spettatori, proiettati dal regista in un universo visivo di movimenti di macchina virtuosistici ed effetti digitali in 3D.
La rutilante messa in scena ha lasciato perplessi molti critici. David Denby del “New Yorker” commentò: “Gli eccessi di Gatsby – casa, vestiti, ospiti celebri – sono concepiti per convincere l’amata Daisy. La volgarità di Luhrmann è concepita per convincere il pubblico giovane e indica che è più un regista di video musicali che un film-maker, con infinite risorse e una scioccante mancanza di gusto”.
Il “cattivo gusto”, però, è un tratto intrinseco del cinema di Luhrmann, che ama barocchismi e toni survoltati, il kitsch consapevole che diventa camp. Ma è adatto al romanzo? Il problema principale è che la storia dell’impostore Gatsby – che affetta un’eleganza che non gli appartiene, fa i soldi col contrabbando e ostenta ricchezze solo per riconquistare Daisy, l’amore di gioventù – non sembra adattabile al cinema. Per lo stile del testo, intriso d’impalpabili sottigliezze linguistiche, difficili da estrarre dall’elettrizzante giro di frase fitzgeraldiano; per la natura sfuggente dei simboli – la luce verde del faro, il cartellone pubblicitario con gli occhi del dottor Eckleburg –, che trasposti nel film si trasformano in sottolineature pedanti della tragedia annunciata.
La messa in scena nervosa e sovraccarica di Luhrmann coglie in parte l’energia del romanzo, l’entusiasmo di una classe sociale che si percepisce al centro dell’universo. Così le folli corse in auto dei protagonisti restituiscono accuratamente un’appagante sensazione di potenza, come se le cose fossero completamente disponibili ai loro voleri.
Una volta accantonato il primo tempo ipercinetico, quando il mistero si dirada mostrando le motivazioni romantiche di Gatsby, il film scade nel sentimentalismo. La storia dell’ossessione onirica di un uomo che crede di poter plasmare la realtà a proprio piacimento – specchio dell’atteggiamento psicologico di un intero paese – si trasforma in un melodramma insistito, nel quale la malinconia diventa maniera e i corposi simbolismi del romanzo si riducono a semplicistiche illustrazioni.
Il grande Gatsby resta cinematograficamente intraducibile: perciò Luhrmann fa apparire direttamente le parole del libro nelle inquadrature, sperando che tra le immagini s’impigli, almeno parzialmente, il loro splendore recondito.