Cetto La Qualunque (Antonio Albanese) torna in Calabria dal Brasile, dove era scappato per problemi con la giustizia. Il tempo di presentare la nuova moglie sudamericana alla consorte italiana ed è già al caffè dagli amici. Loro vorrebbero sapere se là c’è il comunismo, ma Cetto ha altro a cui pensare: “Più che altro c’è pilu, a perdita d’occhio, da costa a costa, pilu dall’alba al tramonto, a pranzo e a cena”. Il racconto diventa fantasmagorico, una descrizione da paese di cuccagna: container, traghetti, petroliere piene di pilu, fino all’apoteosi del “pilu in polvere” dato ai bambini.
Poi sì, viene la politica: infatti il corrottissimo Cetto si candida a sindaco per continuare a esercitare i suoi loschi affari. Ma il centro dei suoi interessi restano le donne. Delle quali vantarsi con la sua gang, che è semplicemente un bar sport degenerato con innesti di violenza (ai danni del candidato onesto).
Nella passione per la “fimmina” si riannoda l’immaginario maschile italiano tutto, radiografato da scrittori come Brancati e Sciascia (siciliani, ma dalla Calabria è un attimo) e dalla commedia all’italiana (il ritratto dei galantuomini al circolo di Divorzio all’italiana di Germi, ancora Sicilia: “Le donne: era un discorso inesauribile. Nelle accese fantasie dei miei concittadini le donne si tingevano dei colori del mito”), fino all’italiano medio di Maccio Capatonda, fissato per il sesso, che prorompe nel grido di battaglia “scopare!”.
Certo, questa genealogia sessuomane italica passa inevitabilmente per Berlusconi, obiettivo polemico di Qualunquemente, esplicitato dalla “discesa in campo” di Cetto. Ma in realtà non c’è niente di nuovo sotto il sole. Ci viene in soccorso lo Sciascia de Le parrocchie di Regalpetra che, quando parla dei signori del circolo, impegnati a discettare solo di donne e lavorare mai, specifica che “questo tipo umano passa dalla poltrona del circolo a quella del consiglio comunale dell’Assemblea regionale del parlamento del Governo”. Il cerchio si chiude: il satiro Berlusconi non è la causa della degenerazione della politica, semmai è un esemplare dell’antropologia del belpaese, dove il cursus honorum resta sempre lo stesso.
Per vincere le elezioni, l’esperto di comunicazione Jerry (Sergio Rubini) cerca di normalizzare Cetto: deve nascondere la seconda moglie, indossare gessati più dignitosi, andare a messa, sorbirsi iniziative culturali (un tremendo Giorni felici di Beckett). Ci manca poco che perda. Perché la sua forza sta nell’appartenenza a questo tratto da italiano eterno, incardinato su donna, qualunquismo e solidarietà maschile. La famosa “pancia del paese”, con cui è istintivamente sintonizzato.
Albanese nel portare al cinema una delle sue più fortunate maschere è divertente, di una comicità paradossale ed estremizzata, ma sociologicamente affidabile: per il carattere degli uomini, la Calabria (ricreata nel Lazio) tutta cemento e costruzioni mai ultimate, la descrizione di un mondo alla rovescia che guarda con allarme alla legalità. Il film però non riesce, come vorrebbe, a porre una distanza critica rispetto al protagonista. Il gaglioffo Cetto ne esce benissimo, con il suo carisma da cafone sciupafemmine, da maschio alfa: e lo seguono tutti convinti, elettori e spettatori.