Hungry Hearts: melodramma da camera sull’ossessione e la fame d’amore

Saverio Costanzo firma un’opera claustrofobica su una coppia che entra in crisi quando nasce il figlio. Il film ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui la Coppa Volpi a Venezia per i protagonisti, Adam Driver e Alba Rohrwacher. Ma non mancano limiti e ingenuità.

Hungry Hearts melodramma firmato Saverio Costanzo

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La storia di Jude (Adam Driver) e l’italiana Mina (Alba Rohrwacher) è all’insegna della claustrofobia: l’involontario primo appuntamento infatti avviene in un bagno di un ristorante in cui restano bloccati. Poi scatta la scintilla e si sposano, ma non escono dalla condizione di separazione dal mondo, testimoniata dall’architettura della loro casa, angusta e soffocante come una prigione. La nascita del figlio fa emergere le differenze. Mina, vegana e lettrice di testi esoterici, è convinta di aver messo al mondo un “bambino indaco” – dotato, secondo la cultura new age, di capacità speciali –, che nutre solo con verdure e non fa toccare a nessuno, ossessionata dal rischio di contaminazione. Jude invece, pur amandola, le sottrae il bambino, che per colpa del regime alimentare non riesce a crescere. Il conflitto della coppia esplode drammaticamente.

Al suo quarto film, Hungry Hearts, Saverio Costanzo riadatta il romanzo di Marco Franzoso, Il bambino indaco, ricavandone una storia in linea con le sue precedenti. Sia il folgorante esordio del 2004, Private – su una famiglia palestinese la cui casa viene occupata da soldati israeliani –, che In memoria di me (2007), ambientato in un convento, erano film su soggetti che si impongono o sono obbligati alla claustrazione. La solitudine dei numeri primi (2010), invece, raccontava persone dal carattere singolare, che vivono il peso esistenziale della loro diversità, ritratto che si attaglia benissimo ai “numeri primi” Jude e Mina.

Eppure, nonostante la coerenza tematica e pur lodando la caparbietà del regista, che ha girato con budget ridottissimo una storia cui teneva molto, Hungry Hearts è un film con molti difetti.

L’eccesso di simbolismo. Durante la festa di nozze viene ucciso un cervo e l’accadimento si trasforma in un sogno ricorrente di Mina. Quando poi va a casa della suocera, dove è stato temporaneamente portato il bambino, la madre vede una quantità smodata di minacciosi trofei di caccia, insistentemente inquadrati, casomai uno spettatore distratto non li collegasse al simbolico incubo premonitore.

I didascalismi. Mina che cammina silenziosamente tra le strade di una New York minacciosa ed estranea; o, invece, la passeggiata col bambino sulla spiaggia, in controluce, con l’oceano davanti che fa sempre tanta poesia.

Le ingenuità stilistiche: le inquadrature col grandangolo nell’appartamento, per deformare l’immagine e sottolineare il rapporto distorto con la realtà dei protagonisti. A cui si aggiungono musiche da carillon, che creano un grottesco effetto horror: per un attimo si pensa di essere finiti in Rosemary’s baby e che invece del bambino indaco i coniugi abbiano messo al mondo il figlio del demonio.

I protagonisti hanno vinto entrambi la Coppa Volpi come migliori attori a Venezia: eppure resta più di un dubbio sull’interpretazione, in particolare quella monotona e catatonica della Rohrwacher, che oltretutto fa sembrare vegani e appassionati new age dei fanatici – prevedo le polemiche dei diretti interessati. Ma è tutto il film a lasciare perplessi: ripetitivo e ripiegato su un brandello di racconto senza sviluppi, se non quello immotivato del finale a sorpresa.