Guido (Luca Marinelli) sveglia tutte le mattine la compagna Antonia (Thony) e mentre le porta la colazione le racconta dettagliatamente la storia del santo del giorno perché, laureato in lettere classiche, è un grande esperto di martiri protocristiani. Poi va a dormire, perché ha appena terminato il suo lavoro di portiere notturno in un grande albergo, mentre lei, cantante intimista dalle aspirazioni ormai quasi passate va a lavorare in un autonoleggio alla stazione Tiburtina.
I protagonisti di Tutti i santi giorni (2012), il film di Paolo Virzì ispirato al romanzo La generazione di Simone Lenzi, sono una perfetta coppia flessibile italiana di oggi: tempi che non corrispondono e lavori nemmeno, perché entrambi proseguono due attività alimentari lontane dalle reali aspirazioni. Ma c’è l’amore a legare il bizzarro bibliomane Guido all’orgogliosamente ignorante Antonia: e poi sorge il desiderio di avere un figlio ad accomunarli ancora di più, ma anche a metterne in crisi le certezze.
Paolo Virzì, come sempre, ha un sincero interesse per le storie umane, che si manifesta nella ricerca di esattezza sociologica dell’insieme. Qui a completare il quadro c’è la vita in una periferia romana di mesto anonimato, nella quale la coppia è accerchiata da un vicinato che, tra bicipiti palestrati e pantacollant, sembra un calco letterale della fauna televisiva.
Il fatto di aver scelto una piccola storia e due volti cinematograficamente nuovi dà a Virzì la tranquillità di muoversi in completa libertà, senza gli assilli di affresco sociale nei quali talvolta si ingolfa – come in Tutta la vita davanti o l’ambizioso Il capitale umano – per l’ansia di trarre conclusioni esemplari. In realtà del capitale riesce a dire di più quando lo filtra attraverso il quotidiano di persone normali, come gli era successo in uno dei suoi film più convincenti, Ovosodo.
In Tutti i santi giorni il regista trova anche il gusto di sperimentare visivamente, creando una tavolozza coloratissima e psichedelica, da trip gentile e favolistico, in cui i brani in inglese di lei, che è davvero una cantante, regalano al film una cadenza informale quasi indie, senza per questo snaturane il carattere pienamente italiano.
Che affiora da tante situazioni: la famiglia siciliana ansiosa e possessiva di Thony, le coppie coatte romane che fanno figli ma non hanno prospettive esistenziali, il ginecologo luminare, soldomane e cattolico, che si fa assistere dalle suore ed è contrario alla fecondazione assistita. La ginecologa che invece la pratica è simpatica, spiritosa e disinteressata al denaro: e in questa netta distinzione tra i due medici il film corre il rischio di impantanarsi in un generico progressismo di sinistra, quello che ha vizio di dividere il paese in un’Italia giusta e un’altra che non piace.
Ma Virzì si sottrae al gioco, grazie a un tono che evita qualunque giudizio moralistico: sposa un tono quasi favolistico, da commedia romantica più che all’italiana e si concentra affettuosamente su due vite ostinatamente ottimiste, che desiderano ancora, nonostante tutto, cercare il proprio modo di stare al mondo.