Da sempre, e giustamente, si dice che Paolo Virzì sia l’autentico erede della commedia all’italiana, l’unico capace di impiegarne gli stilemi senza calligrafie, ma trovando in essa un dispositivo per raccontare i caratteri del paese di oggi, con uno sguardo attento ai dettagli minuti della realtà e uno spirito, come da modello, non riconciliato.
La Prima Cosa Bella (2010), scritto col fido Francesco Bruni e Francesco Piccolo, è la dimostrazione definitiva di questa rivendicata filiazione, col titolo ricavato dalla celebre canzone di Nicola Di Bari. Stavolta Virzì imprime un segnale ancora più forte per marcare il legame con la tradizione classica del nostro cinema, utilizzando un’interprete che della commedia all’italiana è stata un simbolo, Stefania Sandrelli, offrendole anche l’occasione di uno dei ruoli più belli della sua nutrita galleria d’attrice.
Anna, che attraversa i decenni dai primi Settanta (da giovane Micaela Ramazzotti) fino alla contemporaneità della malattia ormai terminale, si collega idealmente ad alcuni dei suoi personaggi più iconici, di cui costituisce una sorta d’aggiornamento o variazione sul tema, dalla Adriana di Io La Conoscevo Bene (con cui condivide la passione per le canzonette – ricordiamo che quel film doveva inizialmente intitolarsi Il Giradischi) alla Luciana di C’Eravamo Tanto Amati.
Anna possiede la stessa disponibilità alla vita, la stessa ingenuità, la stessa, purtroppo, tendenza a fidarsi degli uomini sbagliati, senza però perdere una curiosità infantile verso il mondo che la spinge ad andare avanti nonostante tutto. Anche perché, rispetto ai ritratti di donna di Antonio Pietrangeli ed Ettore Scola (gli unici registi della commedia all’italiana veramente attenti ai caratteri femminili), qui Anna è anche madre, con due bambini da accudire e crescere da sola dopo che il marito (Sergio Albelli), accecato dalla gelosia per la vittoria di un insignificante titolo di miss, l’ha cacciata di casa.
- Mastandrea, Ramazzotti, Pandolfi, Sandrelli (Actor)
- Audience Rating: Non valutato
Gli altri personaggi principali di La Prima Cosa Bella – la canzone che nei momenti di maggiore disperazione e solitudine Anna canta insieme ai due ragazzini – sono i due figli Bruno e Valeria (da adulti Valerio Mastandrea e Claudia Pandolfi). Mentre Valeria s’è integrata col mondo della natia Livorno, pur insoddisfatta di un marito buono quanto logorroico, Bruno è scappato giovanissimo dall’asfittica provincia e dalla vita zingaresca insieme a una madre affettuosa quanto inaffidabile, ed è diventato un professore di scuola superiore a Milano, eppure irrimediabilmente infelice.
Il film è la storia di un ritorno a casa: lo è per Bruno, costretto a rimisurarsi con luoghi persone e soprattutto sentimenti contrastanti; lo è per Virzì, che ritrova nella sua filmografia dopo più di dieci anni la geografia (anche emotiva) precisissima di quartieri umori costumi della città matrice del suo cinema; e lo è anche nella struttura narrativa del film, in un continuo andirivieni tra il passato di Anna giovane e l’ora definitivo della malattia, vissuto con la leggerezza forse irresponsabile eppure anche saggia della sua vecchiaia.
La Prima Cosa Bella è un racconto corale che trova un sorprendente equilibrio tra il desiderio di raccontare una storia con un finale tutto sommato sereno e però anche lo sguardo ad occhio asciutto che la dimensione asfittica, le piccinerie della città in cui si è cresciuti le fotografa lucidamente, senza abbandonarsi a nostalgie caramellose. E uno dei segreti del film, per non indulgere nel sentimentalismo, sta nella velocità del racconto, nel montaggio serrato che incastra il presente nel passato e usa le canzoni sì come momenti che alzano la temperatura emotiva, ma anche come elementi di raccordo che connettono il passato al presente quasi senza soluzione di continuità, lasciando poco respiro allo spettatore.
Così La Prima Cosa Bella, secondo un meccanismo narrativo che sarà ulteriormente precisato nel capolavoro La Pazza Gioia, trova una nervosità che segna lo scarto, l’ulteriore modernità del suo approccio d’autore rispetto alla commedia classica. E nel misurare la sua distanza da quel modello trova uno sguardo all’altezza dei tempi nuovi di cui Virzì vuole parlare. Il brulicare dei personaggi e dell’intreccio tra vicende principali e secondarie – la crisi coniugale di Valeria, l’amore senile del vicino di casa Loriano (Marco Messeri) per Anna, la storia romanzesca dell’esistenza di un altro figlio nella vita della protagonista –, seppur difficile da governare, è lo strumento attraverso cui il film compone il suo affresco, sempre nella cornice di una Livorno che di volta in volta cinge, abbraccia, stritola, asfissia.
Nel rapporto con la propria città e con la vita stessa molto dipende dal modo in cui la si guarda ed affronta. L’esistenza, beninteso, resta quella che è: con sofferenze, odi apparentemente insanabili (quelli del marito e d’una zia invidiosa e beghina verso Anna), la morte a ricordare la stoffa di cui è fatta davvero. Virzì, senza la legnosità predicatoria di chi vuole fare la lezioncina, bensì con lo stile del regista che resta sempre fisso alla storia che sta raccontando, è capace di restituirci l’impasto agrodolce del vivere, in quel punto di giuntura misterioso in cui il dolore si mescola all’incanto gioioso. Con quella capacità, che è soprattutto della Anna di una stupenda Sandrelli, di continuare a sentire la musica dell’esistenza, che passa anche attraverso le note delle canzonette che abbiamo amato.