La Terra sta morendo e l’aria è divenuta irrespirabile, spazzata da apocalittiche tempeste di sabbia. Quasi tutti si sono trasformati in agricoltori dell’unica coltivazione possibile, il granoturco: anche l’ingegnere Cooper (Matthew McConaughey), che alleva i due figli in una fattoria dai campi aridi e spettrali. Interstellar si apre su uno scenario da incubo incistato nella memoria americana, il dust bowl che causò la crisi agricola degli anni Trenta, proiettandolo in un futuro prossimo che sembra preludere all’estinzione della specie umana.
Cooper però riesce a scoprire la base di una segretissima Nasa, dove si lavora a un viaggio nello spazio che mira a trovare un pianeta da colonizzare. Sarà lui a guidare la missione, per esplorare tre mondi che potrebbero possedere le caratteristiche necessarie per la sopravvivenza umana.
Non è indispensabile seguire le arzigogolate volute di una trama ricca di spiegazioni (para)scientifiche, ispirate alle teorie del fisico teorico Kip Thorne sui viaggi attraverso cunicoli spazio-temporali (wormhole), in cui lo spazio diventa sferico e il tempo scorre a velocità diverse – cosicché quando Cooper al ritorno dal viaggio incontrerà la figlia, lei sarà molto più vecchia di lui.
La fantascienza di Nolan è un’inestricabile macchina spettacolare e concettuale, che porta dentro un immaginario vertiginoso. Pone lo spettatore di fronte a una fascinazione infantile per il gigantismo scenografico, tra attraversamenti di buchi neri, quinte dimensioni, pianeti inospitali con tsunami e ghiacciai eterni. Allo stesso tempo lo costringe a misurarsi con ambiziose questioni filosofiche: la natura dello spazio e del tempo, il destino dell’uomo, il significato dell’esistenza. E dell’amore, soprattutto. L’amore come nucleo dell’istinto di sopravvivenza: una forza fisicamente tangibile che piega spazio e tempo; e la forza emotiva e morale che alimenta Cooper, il cow-boy spaziale attratto dalla sfida della scoperta, ma altrettanto irresistibilmente mosso dal desiderio di ritrovare gli affetti familiari.
Rispetto all’inevitabile modello di questo film, il 2001 di Kubrick, Nolan preferisce puntare sulla fusione tra piano filosofico e sentimentale, ma non la controlla adeguatamente. E così le legittime, ma rischiose domande sull’assoluto trovano risposta, semplicisticamente, nella forza dell’amore. Con conseguenze però inquietanti: come nel personaggio di Brand (Anne Hathaway), che vuole raggiungere il più lontano dei tre pianeti solo per ritrovare l’amato, sebbene questa decisione possa mettere a repentaglio la missione e la sopravvivenza della specie.
Nonostante gli scompensi, Nolan resta insieme a James Cameron l’unico autore capace di coniugare grande spettacolo popolare e film d’autore, sorretto da una fantasia visiva mai fine a se stessa. Il film è anche una riflessione sul modo di essere americano: “Troveremo una soluzione. L’abbiamo sempre fatto”, dice Cooper, sintetizzando la quintessenza della loro filosofia pragmatista.
Interstellar è intriso di momenti di opprimente pessimismo, tra pianeti al tramonto e un senso di solitudine che nello spazio siderale è di palpabile evidenza. Ma resta, a contrastare l’inquietudine, l’ottimismo simboleggiato dal protagonista: il fiducioso pioniere alla ricerca della nuova frontiera che, per via della natura del tempo, resta sempre giovane e vigoroso, nonostante lo scorrere degli anni. Proprio come il suo paese.