Se siete alla ricerca di un film recente che catturi l’autentico spirito del musical d’una volta, non è a un’operazione cerebrale, metacinematografica e vagamente funebre come il La La Land di Damien Chazelle che dovete guardare, ma al cartoon con animali antropomorfi Sing. Prodotto dalla Illumination Entertainment di Chris Meledandri, creatrice delle serie di Cattivissimo Me e dello spin off dei Minions, il film d’animazione del 2016, scritto e diretto da Garth Jannings (con la collaborazione alla regia di Christophe Lourdelet) ritrova del musical l’originaria vocazione energetica, la dimensione di sogno a occhi aperti, o meglio di quel sogno che caparbiamente si riesce a trasformare in realtà.
Garth Jannings, che sta lavorando a un Sing 2 la cui uscita è prevista per il dicembre di quest’anno (ma con la pandemia ormai non si è più sicuri di nulla), è un regista britannico che non proviene dal cinema d’animazione ma, con anche due precedenti film all’attivo, ha accumulato soprattutto una notevole esperienza nel campo dei videoclip. E basterebbe solo l’idea semplice e trascinante di un piccolo capolavoro come Cousins dei Vampire Weekend per apprezzarne il talento. Allora l’operazione di Sing è esattamente questa: prendere il dinamismo visivo elettrizzante ma fine a sé stesso dei video musicali e arricchirlo di una cornice di senso che è quella dell’ideologia ottimista da american dream del musical classico.
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Infatti Sing è come rapito sin dalla prima sequenza da una frenesia senza requie, con l’animazione che mima i movimenti instancabili di una macchina da presa che insegue e incastra una dentro l’altra, senza soluzione di continuità, le storie dei protagonisti, raccordate da quel grande fulcro e punto d’equilibrio che è il koala protagonista, Buster Moon. Il quale è l’epitome del sognatore, folgorato da bambino “dalle luci, le scenografie, persino gli odori del teatro”, e trasformatosi in un impresario eternamente in bolletta, con i creditori della banca eternamente sul collo.
Ma nulla può scoraggiarlo: “Sai cosa c’è di bello nel toccare il fondo? Che c’è una sola strada verso cui andare. In alto!”. E allora il domani, come il musical dell’eternamente sorridente Gene Kelly ci insegna, non può che riservare qualche tonificante sorpresa. Buster mette in piedi un contest per voci nuove, con un premio finale di mille dollari. Solo che la sua pluricentenaria segretaria camaleonte Karen aggiunge sbadatamente due zero in più. E in men che non si dica fuori dal teatro si forma una chilometrica fila di aspiranti artisti abbagliati dalla sostanziosa somma in ballo.

Sing non perde l’occasione per costruire intorno al momento delle audizioni una sequenza scatenata che frulla insieme con ammiccamento postmodernista tutti gli stili musicali possibili. Dopo una durissima selezione, Buster mette insieme un gruppetto di cantanti di belle speranze, ognuno adeguatamente raccontato con la sua storia e i suoi inevitabili problemi. C’è Mike, il topo crooner sbruffone e imbroglione, col vizio delle belle topine e del gioco d’azzardo; Meena, timida elefantina dalla voce immacolata però terrorizzata dal palcoscenico; Rosita, madre scrofa di 25 maialini che ha bisogno di evadere dalla sua grigia vita di massaia (Buster l’accoppierà a un maiale tarantolato che pare Psy); Johnny, giovane gorilla figlio d’un gangster che vuole un’occasione per cambiar vita; Ash, porcospina punk-rock fuori ma dolcissima dentro che cerca la sua voce lontano dal fidanzato arrogante e narciso che ne boicotta il talento.
Non inganni la cornice da talent show: Sing è un classico “backstage musical”, il musical “dietro le quinte”, rodatissimo schema di intreccio noto sin dagli albori del genere negli anni Trenta e che racconta la storia di uno spettacolo, un modello perfettamente codificato già in Quarantaduesima strada (1932) di Lloyd Bacon. Quello che fa il film di Garth Jennings è aggiornare lo schema riadattandolo ai nostri tempi, rendendo Sing una sorta di indovinata sintesi della storia del genere, che tiene conto sia della tradizione che delle mutazioni genetiche televisive della narrazione da talent.
Per questo, in quanto a stili musicali, è un contenitore nel quale si può trovare dentro qualunque cosa: da Sinatra ai Gipsy King, da Katy Perry a Stevie Wonder, da Hallelujah di Leonard Cohen ad Under Pressure dei Queen e David Bowie, sino a canzoncine giapponesi e arie da opera lirica interpretate da Pavarotti. La presenza di queste ultime è giustificata dalla comparsa tra i personaggi della ricchissima Miss Nana Noodleman, leggendaria e sdegnosa ex cantante lirica e attrice teatrale novantenne, un incrocio tra Maria Callas e Norma Desmond, che Buster spera di convincere a finanziare lo spettacolo. E se due personaggi talmente agli antipodi possono andare d’accordo è perché, sotto sotto, parlano la stessa lingua e, impuniti, continuano a credere alla medesima magia.
Sing è coadiuvato nella versione originale da un cast di doppiatori tutte stelle, da Matthew McConaughey (Buster) a Reese Witherspoon (Rosita), Seth MacFarlane (Mike) e Scarlett Johansson (Ash), con pure Taron Egerton (Johnny) che canta I’m Still Standing facendo le prove generali per il suo Elton John del biopic Rocketman. Il risultato è un film scintillante e accattivante, che trasuda sincero amore per il musical e un ottimismo tonificante, tanto più apprezzabile perché non ci nasconde mai che quei sogni così ostinatamente perseguiti sono fragilissimi e sempre sul punto di franare.