Ci sono tanti modi per raccontare Napoli quando si fa letteratura ma sono ormai anni che l’elemento cronachistico, l’aderenza alla realtà (spesso quella più turpe) ha preso il sopravvento. E’ per questo che il nuovo romanzo di Alessio Arena – “La letteratura tamil a Napoli” edito da Neri Pozza e uscito da poche settimane – arriva come una boccata d’aria fresca, come una finestra che si spalanca su un panorama che si ha davanti agli occhi tutti i giorni e che pure non si conosce.
Il trentenne napoletano, infatti, racconta la città da un’altra prospettiva, da un altro punto di vista: quello della comunità Tamil (la minoranza indipendentista dello Sri Lanka) e della vasta comunità cingalese che da anni si è insediata in alcuni dei quartieri partenopei più popolari, la Sanità, Materdei, Pallonetto a Santa Lucia.
Ma Arena pur partendo da un dato oggettivo – cioè la convivenza reale tra la comunità napoletana e quella tamil e cingalese che egli stesso ha avuto modo di osservare da vicino essendo originario della Sanità – sceglie la chiave del grottesco, del surreale, la chiave fantastica per raccontare questo incontro/scontro che dà origine ai Napo-Tamil.
Alessio in questa nostra chiacchierata ci spiega che la scelta di questa prospettiva inedita per fare fiction, per fare letteratura, nasce dalla profonda convinzione che non si possano ignorare le nuove generazioni di migranti, quelle nate qui, che imparano a parlare il dialetto prima della loro lingua d’origine.
Non è possibile, ci dice, che di questi “nuovi napoletani” inglobati dalla città, non si sappia nulla e che ci si limiti a tollerarli quando uno dei caratteri principali del capoluogo partenopeo – da sempre – è proprio il sincretismo inteso come contaminazione tra culture e lingue.
E la contaminazione è proprio uno dei tratti più affascinanti del suo romanzo: i suoi dieci protagonisti si nascondono – ad esempio – in quelle stesse cavità che durante il II conflitto mondiale diedero riparo ai napoletani che fuggivano dalle bombe e qui,come loro, costruiscono una città parallela.
E poi – rispetto alla spiritualità – compaiono Madonne che, come divinità indù, vengono tratteggiate su fiori di loto intente a suonare la cetra. Il tutto tenuto insieme da una lingua corposa, ricca che – ci dice Alessio – ha un valore fondamentale per lui e a cui cerca di dare un carattere e un’identità precisa a seconda dell’urgenza del messaggio.
Del resto Alessio scrive anche per la musica – in contemporanea al romanzo, il terzo della sua carriera, è uscito anche il suo primo disco – e per il teatro, in lingua spagnola. Perché Arena sono molti anni, ormai, che vive a Barcellona e dunque conosce in prima persona cosa vuol dire appartenere a due luoghi, a due lingue e a due culture.
E’ per questo anche che la sua opera ha un sapore profondamente moderno, del resto – ci dice – la tradizione non lo abbandona mai (Alessio è figlio di Gianni Lamagna, tra i fondatori della Nuova Compagnia di Canto Popolare) ma è sempre sviscerata, reinterpretata.