Non era male, per un biopic su Jimi Hendrix, l’idea di raccontare l’anno di incubazione verso il successo: il periodo londinese a cavallo tra 1966 e 1967, in cui l’ancora sconosciuto chitarrista di Seattle, grazie al produttore Chas Chandler, bassista degli Animals, passò dall’essere un oscuro turnista alla consacrazione del festival di Monterey.
Questa scelta consentiva di sottrarsi al maledettismo di prammatica dei film sulle rockstar, quasi sempre all’insegna di sesso droga e rock’n’roll. E se c’è un personaggio che si prestava al gioco questo era proprio Hendrix, su tutti e tre i versanti.
Ma il film di John Ridley – già sceneggiatore del prevedibile e pluripremiato 12 anni schiavo – non va molto oltre l’intuizione di partenza. L’Hendrix di Jimi – All is by my side è un mito decostruito attraverso una narrazione del quotidiano quasi pedante: tra chiacchiere da bar, conquiste femminili e difficili rapporti familiari.
In questo è bravo André Benjamin, il rapper degli OutKast che lo incarna perché, al di là dell’indubbia somiglianza, ha scelto un’interpretazione sottotono, che si accorda con l’assunto di fondo del film. Anche se alla fine dal film emerge un Hendrix dal carattere piuttosto influenzabile – tutto il rapporto con Linda Keith, compagna di Keith Richards degli Stones, che funge da suo mentore e coscienza critica –, che snocciola pensieri generici su musica e politica.
Certo non ha giovato l’impossibilità di utilizzare per motivi legali le esecuzioni originali di Hendrix: non sentiamo né la sua chitarra né la sua voce e tutti gli assoli sono stati ricreati da Waddy Wachtel. Forse anche per questo di Hendrix resta solo il fantasma, un’ombra impalpabile. E il film finisce per snodarsi attraverso una prevedibile rappresentazione incentrata su giacche sgargianti e acconciature vistose (si parla moltissimo di capelli in Jimi) che fanno molto swinging London, con giusto un po’ di spruzzata di politica e razzismo per dare spessore al “messaggio”.
Che non ci creda fino in fondo nemmeno Ridley lo dimostra il massiccio impiego di espedienti visivi per movimentare la scena: timelapse, bruschi tagli di montaggio, freeze-frames, cioè fermi immagine con tanto di enfatica didascalia all’apparire di ogni star – e così la mitologia rock lasciata fuori dalla porta rientra dalla finestra. E l’incapacità di indagare con una chiave originale quel periodo è confermata dal pigro ricorso a spezzoni d’epoca su mode e fatti storici, che poco o nulla aggiungono.
Alla fine del film arriva la consacrazione: il concerto al Saville Theatre dove, davanti a un pubblico stupefatto tra cui c’è il gotha del rock, Paul McCartney compreso, la Jimi Hendrix Experience suona Sgt. Pepper’s lonely hearts club band. Hendrix per la prima volta si esibisce nei suoi virtuosismi, suonando la chitarra con i denti e dietro la schiena. Il pubblico va in visibilio e sembra che alla fine il segreto del suo successo – e della sua arte – stia tutto in quei giochetti. Un po’ poco, per il più grande chitarrista della storia del rock.