Bleed – Più forte del destino con Miles Teller era un film inevitabile. Impossibile che Hollywood, così affascinata dalle pellicole “tratte da una storia vera”, si lasciasse sfuggire l’incredibile vicenda di Vinny Pazienza, pugile italoamericano degli anni Ottanta-Novanta capace di tornare a boxare – e vincere un altro titolo mondiale – dopo un drammatico incidente d’auto a seguito del quale, secondo i medici, a stento sarebbe riuscito a camminare.
Il regista di Bleed è Ben Younger (1 km da Wall Street, Prime) e c’è addirittura Martin Scorsese come produttore esecutivo, probabilmente intrigato non tanto dal tema della boxe – il film stilisticamente non ricorda certo Toro scatenato – ma dal racconto del milieu italoamericano del Rhode Island da cui proviene Vinny.
Bleed è una classica storia di caduta e rinascita, incentrata sul mito americano della seconda occasione, offerta a chi sia disposto a seguire un percorso fatto di sacrificio e forza di volontà. Ed è impressionante la costanza di Vinny (mista forse anche a disperazione), interpretato da un Miles Teller la cui abnegazione sul ring e negli allenamenti finisce per ricordare il suo ruolo in Whiplash. Solo che qui, al posto delle bacchette da batterista che impiegava con foga quasi masochistica, ci sono, più realisticamente, i guantoni da boxe.
Bleed però, questa la sua qualità migliore, non punta immediatamente sull’aspetto più vistoso della vicenda, l’eroico recupero dall’incidente. Il film dedica l’intero primo tempo a raccontare attentamente la quotidianità spicciola della famiglia qualunque italoamericana da cui proviene il pugile. Le schermaglie col padre irascibile (Ciaràn Hinds), un consigliere che lo aiuta ma anche istiga a dare sempre di più, sul filo del limite e pure oltre; il ruolo ambivalente dei manager, più attenti ai propri affari che alla salute del pugile; la relazione più che professionale con Kevin Rooney, coach di origini irlandesi, ex allenatore di Mike Tyson, che prima gli suggerisce la mossa rischiosa di salire di due categorie e poi gli è vicino nella folle impresa di rientrare dopo l’incidente d’auto (lo interpreta un credibile Aaron Eckhart, calvo e appesantito).
Dopo l’infortunio Vinny è costretto a portare un tutore a protezione della testa, assicurato con delle viti conficcate nel cranio. Un’impalcatura che lo isola dal mondo, facendolo assomigliare a un Cristo scorsesiano col fardello della corona di spine. E infatti c’è anche il sangue, sulle viti che Vinny si fa togliere senza anestesia, quasi che simbolicamente la redenzione non possa fare a meno della sofferenza, prezzo necessario da pagare per la rinascita.
La parte più scontata di Bleed – Più forte del destino è proprio l’ultima, con Miles Teller novello Rocky d’una favola trionfalistica in cui, grazie a una ricetta tutta sangue sudore e lacrime, il campione ottiene la meritata ricompensa per la sua incrollabile caparbietà. Un finale perfettamente sintonizzato sull’american dream e il suo corollario della seconda occasione: quella sorta di religione laica che promette il successo a chi sia disposto a seguire un percorso fatto di duro lavoro, coraggio e determinazione.