Chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini? Il ragazzo di vita Pino Pelosi detto la Rana, come stabilito dal processo? Oppure, come racconta La macchinazione, il nuovo film di David Grieco – che ha germinato anche un volume omonimo –, dietro la morte dello scrittore c’è un complotto che annoda grande industria, destra eversiva e banda della Magliana?
Quello di Pasolini è diventato negli anni, come recitava il titolo di un altro film dedicato al caso, un delitto italiano. Dove italiano sta per qualcosa che non attiene soltanto a una persona ma alla nazione intera, la sua morte come un contenitore esplosivo di misteri che ci riguardano tutti. C’è sempre stata nel Pasolini scrittore la vocazione, partendo dalla sua esemplarità individuale, a riassumere i caratteri, valori e degenerazione compresi, del sistema paese. E questo lavorio dal singolare all’universale Pasolini lo ha sempre compiuto attraverso una produzione narrativa e poetica ancorata all’autobiografia, che faceva leva sulla sua sensibilità e, letteralmente, sull’ostensione del proprio corpo. Di Petrolio, il suo romanzo-saggio incompiuto che è al centro de La macchinazione, il poeta disse: “Ho parlato al lettore in quanto io stesso, in carne e ossa”. E deriva da questa assunzione di responsabilità fisicamente indossata un tratto inestinguibile del suo fascino agli occhi dei lettori dei suoi libri e degli spettatori del suo cinema. Che ne hanno sempre percepito la sincerità di artista per cui l’opera non è un paravento dietro cui nascondersi ma uno schermo sul quale proiettarsi, con quel minimo di dissimulazione che la finzione necessariamente comporta, ma sempre mossi da un’esigenza di verità e onestà.
È questa la ragione per cui le pagine dell’ultimo Pasolini, il corsaro dell’Io so, della denuncia del degrado non solo morale ma criminale del paese, hanno la forza di una testimonianza resa sotto giuramento. Percepita, anche in assenza di prove certe, come irrefutabile, per l’assoluta schiettezza di colui che la pronuncia (per lo stesso motivo altri guardano al poeta di Casarsa con irritazione, per l’indimostrabilità velleitaria della affermazioni e quel mettersi in scena che sa d’esibizionismo).
Pasolini è una personalità naturalmente esuberante, d’un egocentrismo talvolta debordante che riassorbe ogni cosa su di sé. Così persino un film come La macchinazione più che una ricostruzione dei punti oscuri dell’omicidio, rischia di trasformarsi in una storia che promana dallo scrittore in prima persona. Una sensazione amplificata dalla scelta del protagonista, un Massimo Ranieri così somigliante a Pasolini da non sembrare un attore che lo interpreta, quanto una sorta di doppio, di medium attraverso il quale il poeta prende la parola.
La macchinazione racconta il delitto sulla base di retroscena e ipotesi che getterebbero una luce inquietante sull’assassinio. Dietro il quale ci sarebbe Eugenio Cefis, presidente dell’Eni e poi della Montedison: vera ossessione dell’ultimo Pasolini, che partendo dalle suggestioni di Questo è Cefis, biografia non autorizzata firmata dal fantomatico Giorgio Steimetz, ne aveva fatto il protagonista di Petrolio, pubblicato postumo nel 1992. Cefis sarebbe il manovratore cui facevano capo le trame più oscure di quella stagione italiana, il mandante della morte di Enrico Mattei – ufficialmente deceduto in un incidente aereo –, nonché fondatore della P2.
L’interesse di Pasolini per questa scomoda figura sarebbe all’origine della sua fine: non un delitto casuale per una prestazione sessuale degenerata in violenza, ma una congiura ordita ai suoi danni dalla destra eversiva e materialmente eseguita da criminali legati alla banda della Magliana. E Pelosi sarebbe stato semplicemente l’esca per convincere lo scrittore, piuttosto sospettoso, ad andare all’Idroscalo di Ostia per recuperare le bobine del suo ultimo film, Salò, che erano state misteriosamente trafugate.
Ne La macchinazione Grieco si prende varie licenze, inventando incontri tra Pasolini e Steimetz (Roberto Citran) e un Pelosi (Alessandro Sardelli) attore in un poliziottesco per volere dei complottisti. Il film tende ad aderire in maniera mimetica al suo protagonista, di cui ribadisce il ruolo profetico, accentuato da squarci visionari, didascalici e un po’ grotteschi, in cui Pasolini pare in grado di anticipare la futura decadenza dell’Italia, come folgorato da un’allucinazione.
La macchinazione dedica particolare attenzione all’ambiente dei ragazzi di vita che si coagula intorno alla nascente banda della Magliana (nel film gli attori Libero De Rienzo e Matteo Taranto). E anche qui emerge secondo il film la capacità vaticinante di Pasolini, consapevole che da quel mondo sottoproletario un tempo idealizzato e poi sostituito da individui aggressivi d’indole criminale sarebbe sortita la minaccia per la sua vita.
La macchinazione ripete, soprattutto in un finale visionario francamente esasperato, l’idea del Pasolini martire, che muore per mano di un complotto politico che assomiglia a un rito autosacrificale cui il poeta si sottopone quasi consapevolmente (il dialogo con la madre, interpretata da Milena Vukotic, in cui dice che Pelosi lo tradirà). Il film di Grieco è spinto da una condivisibile esigenza di verità sull’omicidio che, obbiettivamente, con dubbi già espressi nella sentenza di primo grado, è improbabile sia stato compiuto da un uomo solo. Ma le perplessità che La macchinazione lascia sono tante: non per le legittime libertà narrative che si prende, né per i dettagli dell’ipotesi di complotto, dei quali si può ovviamente discutere. I dubbi sono legati al fatto che il film riproponga l’immagine canoizzata del Pasolini profeta, presentando la sua produzione degli anni corsari come una guida preventiva all’Italia dal 1975 a oggi, alla quale affidarsi con fiducia assoluta. Fiducia che lo stesso Pasolini – per quanto il suo narcisismo da poeta apocalittico abbia contribuito al formarsi di questa idea – avrebbe ritenuto ingenua e mal riposta.