A una trasmissione televisiva Umberto Galimberti, di professione filosofo, dice che Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono peggiori dei terroristi, più feroci, più efferati, almeno quelli “avevano una ideologia”. Gli fanno eco i conduttori, il provocatore Parenzo e la maestrina Concita de Gregorio, per cui i terroristi “rischiavano la vita”. È duro a morire il luogo comune dei terroristi guerriglieri, martiri contro il sistema infame, duro perché nessuno vuole farne davvero giustizia: i deliri di Galimberti non sono diversi da quelli che sentivamo alle assemblee liceali più di quarant’anni fa e c’è un passaparola, come una missione che si tramanda: difendere l’indifendibile, ammantare le miserie umane e politiche di valori indiscutibilmente sani, fecondi. Missione impossibile ma pervicace quella di conferire nobiltà ad uno dei periodi più foschi, più truci della nostra storia italiana, quello degli anni di piombo, per qualcuno “formidabili”. Ma di formidabile ci fu solo la violenza e l’inutilità, la vanità di una allucinante stagione che pareva non voler mai finire. Di formidabile restano i ritardi accumulati, che ancora oggi pesano sulla nostra società perennemente in ritardo; restano gli equivoci, le ipocrisie, il revisionismo legnoso di un incubo che davvero ha lasciato pochi motivi per essere celebrato, meno ancora per venire rimpianto. Almeno per chi, da quegli anni osceni, non ha ricevuto un trampolino, una spinta per una carriera nei giornali, nelle case editrici, nello spettacolo, nella cosiddetta cultura.
Quanti senza casato e senza pelo sullo stomaco, invece, il piombo avendolo respirato loro malgrado fin da ragazzini, crescendo, invecchiando, non hanno mai trovato nella propria memoria alcuna corrispondenza con i toni insopportabilmente melensi, quasi proustiani di chi ha camuffato una feroce farsa collettiva in un momento epico, esaltante, liberatorio. Un momento che, le cifre sono fluttuanti ma prendiamole per buone, è costato 358 morti e 1500 feriti nei 20 anni dal 1969 al 1989, lasciando dunque fuori i caduti recenti quali Massimo d’Antona e Marco Biagi, attribuiti a colpi di coda delle cosiddette nuove Brigate Rosse. Un sacrario figlio di una follia che oggi è difficile perfino raccontare, tanto fu inconcepibile, e che si rese possibile anche grazie ad una incredibile zona grigia di complici, di simpatizzanti, di cooperanti più o meno nell’ombra pari a quattrocentomila persone. Cifre discutibili, per difetto, perché ogni computo tende a escludere i morti ammazzati che considera giusti o sacrificabili o vuoti a perdere in ragione dell’appartenenza politica. Ma dietro ogni numero c’è una tragedia e sono tutte di una indicibile sofferenza che non può guarire mai, né per chi l’ha subìta né per i familiari.
Per tutti, la testimonianza, straziante e umanissima, di uno fra i meno ricordati, uno dei dimenticati, uno di quelli che soffrirono di più, se è lecita una classifica del dolore. L’architetto carcerario Sergio Lenci racconta il suo martirio nel libro “Colpo alla nuca”, diario afasico di una vittima mite: il commando di Prima Linea che lo “semigiustizia” il 2 maggio del 1980 gli lascia una pallottola saldata alle ossa del cranio, che colpisce anche le corde vocali. Oltre a quelle del ricordo, che stringono, soffocano ma, constata Lenci, vibrano invano. Come uno ritornato dal lager, la vittima capisce che il suo urlo muto non interessa a nessuno, nessuno vuole sentire il racconto dell’esecuzione, della penosa degenza, della straziante convalescenza, dell’impossibile ritorno alla normalità, e poi dell’allucinante processo, dell’ambiguità poderosa di una macchina statale che vuole solo ridurre al silenzio, del ribaltamento della verità ad opera del potere politico-mediatico, dei mille mali che non passano, uno su tutti: perché a me? Lenci non troverà risposta, malgrado un fitto carteggio con i suoi aguzzini: ed è questa latitanza di una ragione, una ragione seria, discutibile, sostenibile, a ferire di più.
“Chicco” si chiama uno dei giustizieri: e Chicco resterà per sempre, un ragazzino truce e tracotante, viziato e feroce, uno dei tanti cui larghi strati di intellighenzia incredibilmente riconoscevano, e ancora oggi riconoscono, profondità di pensiero, maturità politica, finezza analitica, rispettabilità culturale, coraggio disinteressato.
E l’architetto muto racconta, inascoltato. Racconta in punta di piedi, con quella mitezza che suona ancor più straziante alla luce delle ingiustizie subite, dalla violenza fisica alla sistematica negazione della propria dignità di vittima. Racconta le ambiguità, le connivenze, le tolleranze dell’ambiente universitario e politico verso i contestatori, come quelli degli “Uccelli”, gruppo dadaista, che pretendono un esame di gruppo cioè la lettura di un comunicato rivoluzionario da premiare col 30 generalizzato (da cui si deduce il progressivo sfascio di arti, mestieri e professioni in Italia), pronti ad aggredire, rovinare, calunniare, offendere chiunque si opponga alla loro pseudogoliardia opportunistica. È la “cultura del terrorismo” denunciata da Lenci. Una cultura senza cultura, tutta eretta su un conformismo ammantato di anticonformismo. Proprio questa ammissione cruciale, “sbagliavamo tutto”, i carnefici la tengono per sé; e questa attesa vana è la fitta più dolorosa per chi ha avuto il torto di sopravvivere.
Il “perdono” di Lenci è di natura diversa. Formalmente non c’è, ma egli non si nega a un dialogo epistolare con i suoi carnefici, una in particolare, una ragazza che vorrebbe conoscere da lui, dalla sua stessa vittima, le ragioni di un gesto così abietto. Il rovesciamento dei ruoli, della stessa logica, è allucinante. E inutile. La ex terrorista, pur in un rimorso sincero, non è in grado di capire altre ragioni che quelle che ha già in testa, non riesce ad accettare le risposte, pazienti, civili, quasi paterne, che le giungono dal suo bersaglio. Il diario si chiude registrando l’ennesima delusione, la sconfitta dell’incomunicabilità, è il ferito a vita che deve dar fondo a tutta la sua riserva di pietà per chi lo ridusse in uno stato pietoso.
Sergio Lenci è morto nel 2001, dopo ventun anni di calvario. La via che il Comune di Roma gli ha dedicato nel 2007 non riscatta un solo giorno del suo dolore, profondo e mite. Nel 2009 il suo inutile diario è stato pubblicato dalle edizioni Il Mulino. Ma quasi nessuno, ancora una volta, se n’è accorto.
Davvero, caro Galimberti, i terroristi erano crociati della giustizia sociale da rivalutare, da riscoprire?