A Kabul hanno di nuovo proibito la musica. Il tempo si accartoccia su se stesso, l’Afghanistan torna a trent’anni fa, ai tempi della dominazione sostenuta dai sovietici. Adesso a reggere le fila c’è soprattutto la Cina ma l’incubo torna identico: le donne chiuse, costrette, negate; le rappresaglie, i giornalisti inseguiti, la violenza di strada, la giustizia sommaria, i primi attentati, le prime stragi all’aeroporto. Non addebitabile direttamente ai nuovi padroni quanto all’Isis-K, il ramo afghano che dei Taliban è nemico; comunque un effetto collaterale, immediato, inevitabile della risorgenza conseguente alla disfatta americana, occidentale nella regione. Via la musica, dunque: lo ordina il Corano, dicono i padroni assolutisti ma è solo la loro interpretazione, fanatica, non c’è nessun divieto, nessuna prescrizione: Edward Said, orientalista, studioso della cultura islamica e musicologo, avrebbe avuto qualcosa da dire.
Chi ebbe invece molto da dire, e in tempi non sospetti, fu Frank Zappa, che nel triplo album Joe’s Garage, del 1979, preconizzava proprio un mondo senza musica, bandita da un regime totalitario che si manifesta nel sussurro del Central Scrutinizer, sorta di Grande Fratello narrante. Zappa non punta specificamente ad una forma sapienziale e tanto meno all’Islam, ce l’ha con tutte le religioni in quanto sistemi organizzati e dunque, nella sua ottica, oppressivi. In particolare, la sua polemica corrosiva si indirizza su quelle che considera organizzazioni mistico-politico-affariste quali Scientology, ribattezzata Appliantology e diretta dal santone Ron Hoover (Hubbard nella realtà).
I tre dischi di Joe’s Garage tratteggiano in 18 pezzi il mondo distopico per antonomasia: la musica evapora, il protagonista, Joe, si spinge sul cornicione della follia e può solo immaginare, nella sua testa, l’epico assolo di Watermelon in Easter Hay – uno dei più belli nella sterminata produzione zappiana, per inciso.
Cosa vuole dirci Frank nel suo modo grondante genialità visionaria e strabordante inventiva sonora? Una cosa molto semplice: dove c’è musica c’è libertà e, d’altra parte, dove la musica manca s’impone inevitabilmente la dittatura, lo stato totalitario, l’obbedienza cieca, la pressione ossessiva, alienante, alienata: qualsiasi riferimento ai tempi che stiamo vivendo non è affatto casuale, e non solo laggiù, a Kabul, dove pezzi di uomini, di donne cominciano a volare per aria al posto degli aeroplani che dovrebbero portare in salvo la popolazione: trenta milioni di umanità terrorizzata, sei milioni di bambini già stritolati da un futuro che non c’è.
La musica è gioia, è fuga, è fantasia. La musica è ribellione o almeno trasgressione, la è sempre stata, in qualsiasi epoca, non solo con le rivoluzioni più o meno reali, più o meno organizzata del rock. La musica è un costante superamento degli stilemi, delle gabbie di genere e proprio questo continuo sfondare i confini assume un significato politico: come la dodecafonia che – significativamente all’indomani della prima guerra mondiale – teorizza l’abbattimento dei confini classici, come il minimalismo che reagisce polemicamente alle astrusità dell’avanguardia, come la distruzione creatrice modale di Miles Davis, come il free jazz, come, con alcune riserve, col punk e con il rap e l’hip hop solo per contenerci ai recentissimi tempi. Il rapporto tra musica e potere è strettissimo fino a rivelarsi inscindibile e lo è quello tra musica e religione; e lo è, per forza di contrappasso, quello tra musica e contropotere. Zappa lo sapeva e lo ha dimostrato meglio di tutti fin dalla sua deflagrazione con Freak Out!, nel 1966: dopodiché, in assoluta coerenza con la sua continuità concettuale, non ha mai smesso di edificare il suo canone sulle forze centripete (per gli altri) e centrifughe (per se stesso). Lo ha fatto con armi inusitate: una preparazione tecnica superiore, uno spirito corrosivo irraggiungibile, un gusto irrefrenabile per la parodia spinta al limite dell’antonomasia, un inserimento bulimico di qualsivoglia suggestione, di qualsiasi matrice, nella composizione musicale.
Tutto in Zappa è attacco frontale, nello spettro che va dal doo-wop all’avanguardia colta passando per i registri della musica popolare, del rock, del citazionismo, della musica concreta, del rumore puro, della manipolazione elettronica, fino all’inserimento di nonsense parlati, imitazioni, versi, suoni gutturali, grugniti, perennemente in una chiave di sberleffo, di ricorso al porno, di utilizzo dei feticci consumistici come i jingle pubblicitari, tutto sempre e comunque finalizzato ad una operazione che si articola lungo un duplice registro: la denuncia analitica, senza quartiere, di ogni espressione autoritaria da un lato, e la difesa della libertà, allegorizzata nella musica, dall’altro. “La musica è il meglio”: questo il suo credo, assurto a valenza dogmatica. Oggi A Kabul c’è il peggio, perché il meglio, la musica, è stata imprigionata. Praticamente contemporaneo a Joe’s Garage è l’altro capolavoro doppio Sheik Yerbouti, che, raffrontandolo al terribile presente, assume quasi l’impatto di una sinistra sincronicità junghiana. Ma questa (forse) è un’altra storia.