Un film può diventare cult in tanti modi. Accedendo al pantheon dei classici per la via maestra dell’apprezzamento di critici e intellettuali. O facendosi strada “dal basso”, per acclamazione popolare. Cioè quello che è successo a Febbre da cavallo, firmato nel 1976 da un regista di lungo corso come Steno: il quale, sebbene nella sua ricca filmografia si trovino gemme come Totò a colori e Un americano a Roma, è stato sempre considerato un autore di seconda fila, un “buon artigiano”, come si usa dire.
Come è noto, Febbre da cavallo non fu un gran successo all’uscita: la fama arrivò grazie ai continui passaggi sulle tv private romane e alla passione degli studenti liceali delle scuole della borghesia bene della capitale, che nei cineforum autogestiti dei primi anni Novanta non mancavano mai l’appuntamento con Proietti-Mandrake e Montesano-Pomata.
Solo dopo è arrivato il plauso della critica: nel primo libro dedicato al genere, La commedia all’italiana di Masolino d’Amico del 1985, il film non è nemmeno citato; e anche l’equilibrato e informatissimo dizionario dei film di Mereghetti nell’edizione del 2000 ancora lo giudica “una commedia sbrigativa” da una stella e mezzo, mentre aprendo l’ultima edizione, del 2014, si legge di “un sense of humour irresistibile”, e le stelle sono diventate due e mezzo.
Ed è vero: perché Febbre da cavallo è una delle ultime grandi commedie italiane, sorta di Soliti ignoti in sedicesimo che celebra l’arte di arrangiarsi di un gruppo d’incalliti scommettitori e racconta con affetto la Roma di una volta, con quell’aria cialtrona e fregnacciara che anche Fellini, con ambizioni ed esiti diversi, aveva commemorato.
A proposito di Fellini, non sarebbe sbagliato definire “bidonisti” questi frequentatori dell’ippodromo di Tor di Valle, piccoli truffatori mossi dalla malattia del gioco e dal desiderio, attraverso di esso, di trovare un riscatto alle loro deludenti esistenze: Fioretti Bruno detto Mandrake, che sogna una carriera da attore ma ristagna implacabilmente tra comparse e indossatori, Pellicci Armando detto Er Pomata, “che si autodefinisce tecnico ippico ma è solo un disperato”, il tenero parcheggiatore Felice (Francesco De Rosa) e l’avvocato De Marchis intagliato da un impagabile Mario Carotenuto, malinconico ritratto di un disgraziato che s’atteggia ad altoborghese perché ha una scuderia composta da un solo cavallo, il brocco Soldatino.
Raffigurata così, la storia mostra un lato decisamente amaro, che doveva essere più evidente nella prima versione della sceneggiatura, seria, di Alfredo Giannetti, poi voltata felicemente in farsa da Steno e dal giovane figlio Enrico Vanzina. Il regista ne trasse un film che aveva la struttura d’una commedia degli anni Cinquanta, di poveri tutt’altro che belli (a parte ovviamente Mandrake e il suo “sorriso magico”). Un’opera per certi versi anacronistica, che invece di guardare ai dilemmi pubblici e sociali tipici della commedia all’italiana affondava, col suo ritratto di perdenti che beffano altri poveri cristi, in una tradizione quasi boccaccesca.
Steno ebbe l’intuizione di puntare su due attori già popolari ma senza grandi trascorsi cinematografici, che lasciò liberi di esprimersi al meglio, assecondando il travolgente fregolismo verbale di Proietti – riascoltando la stupenda musicalità del monologo su “chi è il giocatore delle corse dei cavalli” viene da chiedersi come sia possibile che un attore così sia stato pochissimo utilizzato al cinema – e la fisicità patibolare, di funebre comicità, del Montesano giovane.
L’exploit di questa divertentissima commedia si regge in gran parte sugli attori: oltre ai protagonisti le “guest star” Carotenuto e Adolfo Celi, il giudice apparentemente serio ma al fondo cialtrone, un ruolo molto simile a quello di Amici miei; e gli incredibili caratteristi, facce e corpi come quello di Ennio Antonelli-Manzotin, che inutilmente si cercherebbero nell’Italia dalle fisionomie ripulite e anestetizzate di oggi. Volti che in una sola espressione riepilogavano il carattere di una città che, come loro, non esiste più. Probabilmente è questo, persino per i non romani, uno dei piaceri maggiori che si provano nel vedere la comicità popolare, franca e diretta, di Febbre da cavallo. Un piacere, come tante altre cose, irrimediabilmente perduto.