In Reality di Matteo Garrone l’estroverso pescivendolo Luciano (Aniello Arena, bravissimo) fa un provino per il Grande Fratello. Supera le prime selezioni e confida di entrare nella famosa “casa”. In breve la speranza diventa paranoia: crede di essere sorvegliato dalla trasmissione e assume comportamenti bizzarri, dettati dal desiderio di compiacere “la televisione”. Ma la chiamata non arriva. Un amico cerca di scuoterlo dalla sopraggiunta depressione con la fede: ma durante un pellegrinaggio a Roma Luciano scappa, diretto verso la casa del Grande Fratello.
Reality sintetizza decenni di riflessioni teoriche su come la finzione abbia invaso e manipolato la realtà, trasformando le persone in un pubblico disposto a tutto pur di divenire protagonista di uno show. Un processo nel quale si smarrisce il confine tra vero e falso e la realtà a poco a poco sbiadisce, sostituita da un più entusiasmante mondo spettacolarizzato.
I luoghi in cui si svolge la storia certificano la progressiva affermazione della finzione: il locale per cerimonie, dove si svolge un matrimonio scandito come una messa in scena in cui l’ospite d’onore è, ovviamente, un concorrente del Grande Fratello; il centro commerciale, che come una vera città ha strade e piazze, però è più divertente, grazie all’euforia scenografica e all’onnipresenza delle merci; Cinecittà, che da fabbrica dei sogni cinematografici si è trasformata nel centro di produzione dell’immaginario del Grande Fratello.
Attraverso l’ossessione di Luciano di essere controllato, poi, Reality racconta lo slittamento dalla realtà alla finzione. Il pescivendolo si mette a interpretare la parte che crede vogliano i commissari della trasmissione, ma dopo poco non è più in grado di separare il vero dal falso e trasforma il quotidiano in una simulazione di cui non distingue più i contorni, simboleggiata dalla costruzione a casa propria del confessionale del Grande Fratello, in cui continua a recitare anche senza un pubblico. A quel punto è davvero nel reality, compiuta fusione di realtà e finzione.
Garrone però non disprezza i suoi personaggi. Non li giudica e non fa la morale: sottolinea la fascinazione malsana che nutrono per il mondo dello spettacolo, ma cerca ostinatamente quegli aspetti – l’intensità degli affetti familiari, i rapporti condivisi di piazza – che testimoniano la sopravvivenza di comportamenti non ancora integralmente consegnati alla simulazione della messa in scena. In questo senso il film sembra suggerire una distanza tra tv e cinema: quest’ultimo capace ancora di rivolgere verso i protagonisti uno sguardo partecipe, non integralmente intossicato dalla deriva enfatica della rappresentazione televisiva e alla ricerca di brandelli di realtà e umanità.
Garrone non è ingenuo. Sa che, nell’era di photoshop e internet, l’immagine è sottoposta a manipolazioni radicali. Però crede ancora nel potere del cinema di documentare residui di autenticità e si sforza di trovare un’estetica all’altezza di una possibile idea di realismo. Perciò usa un linguaggio prettamente cinematografico, come nel bellissimo piano sequenza d’apertura e nella lenta inquadratura dall’alto del finale. Per dare il segno, attraverso scene che nessun reality potrà mai imitare, della profonda differenza che permane tra cannibalismo televisivo e umanesimo cinematografico.